In tema di pensioni elevate, cosiddette d’oro, la linea dura nel senso della loro riduzione, pare trasversale, va dal Movimento 5 stelle a Fratelli d’Italia, passando per la sinistra estrema.
Di Maio e la Meloni, Salvini e la Boldrini paiono accomunati dalla smania di tagli incondizionati agli assegni che superano di molte volte la pensione minima sociale, le pensioni d’oro, adducendo ragioni di risparmio, equità sociale e necessità di solidarietà intergenerazionale.
Tutti argomenti deboli: cercheremo di porre chiarezza in un tema, ne sono consapevole, scabroso e di difficile comprensione, mettendo da parte argomenti superficiali e demagogici.
Non sono allergico ai populismi, anzi, le reazioni di pancia della maggioranza spesso corrispondono al buon senso comune, scevro di inutili cerebralismi ammantati di falsa cultura, ma non ho mai sopportato il pauperismo elevato a sistema, i discorsi per i quali eticamente si dovrebbe guadagnare tutti più o meno le stesse cifre, esulando dal merito e dal successo.
Sto parlando di merito e successo, supponendo, in Italia fa un po’ sorridere lo so, che chi ambisce e raggiunge posizioni più elevate con più alte retribuzioni, se lo sia ampiamente e legalmente meritato.
Sto parlando di pensioni, non di vitalizi, prerogative non giustificate ottenute in base a pochi anni di cariche istituzionali, questi sì, solo riconducibili a posizioni di privilegio.
Sto parlando quindi di veri e propri assegni pensionistici, calcolati in base ai contributi versati nel corso della attività lavorativa, e a volte, come spesso succedeva in passato, calcolati retributivamente in base ad una percentuale dell’ultimo stipendio percepito.
È di questi giorni la notizia che l’attivazione della quota 100 ha di fatto sbloccato molte situazioni che erano rimaste nel limbo in base alle riforme dei governi precedenti, in primis la famigerata Fornero, bagnata da calde lacrime, non certo dell’allora ministro, ma di tanti aspiranti pensionati, scippati del loro diritto, come la categoria degli esodati, che fu poi reintegrata a seguito di ricorsi.
Parliamo di cifre
Le pensioni d’oro se si assumessero per tali quelle sopra i 4 mila euro netti al mese, sono circa 40 mila. Nelle ipotesi che si erano rincorse nella lunga gestazione della manovra finanziaria, era quindi questa la platea su cui si sarebbero potuti abbattere i tagli annunciati dal governo M5s-Lega. Stando ai dati dell’Istituto di previdenza, difatti, le pensioni sopra i 7 mila euro lordi, che si avvicinerebbero ai 4 mila euro netti, sono circa 37 mila.
Si riducono ulteriormente di diecimila unità, a poco più di 26 mila, se si passa alla classe sopra i 7.500 euro. Al contrario il bacino raddoppierebbe, con oltre 70 mila assegni, se ci si fosse fermati ai 6 mila euro lordi.
Ma così non è stato.
Il governo Conte ha scelto una via intermedia e mediata, al solito, tra le due anime del Governo, in quanto a fronte di una volontà più rigorosa del Movimento 5 stelle, la Lega si vedeva imbarazzata a sostenere tali tagli: la maggior parte degli assegni più consistenti è localizzata al Nord Italia, oltre che nella provincia di Roma.
Nei prossimi cinque anni si avrà quindi, ancora, un contributo di solidarietà, previsto a scaglioni nelle seguenti aliquote:
– del 15 per cento per redditi tra i 100 mila e i 130 mila euro lordi;
– del 25 per cento per redditi tra i 130 mila e i 200 mila euro lordi;
– del 30 per cento per redditi tra i 200 mila e i 350 mila euro lordi;
– del 35 per cento per redditi tra i 350 mila e i 500 mila euro lordi;
– del 40 per cento per redditi superiori ai 500 mila euro lordi annui.
Secondo le stime dell’esecutivo con questi tagli si riusciranno a mettere da parte 76,1 milioni di euro nel 2019, 76,6 nel 2020, 83,3 nel 2021, 86,7 nel 2022 e, infine, 89,9 nel 2023.
Il provvedimento alla fine risulta più simbolico che effettivamente utile alle casse dello Stato, e si espone a molti rilievi.
I rilievi economici
A prescindere dalla evidente esiguità dei numeri della soluzione adottata, sia come risparmio che come fascia di soggetti assoggettati al nuovo balzello, la realtà è che le pensioni d’oro in Italia sono pochissime, e, tenendo conto del peso del fisco, la platea di veri pensionati d’oro si restringe: quelli che hanno un reddito netto superiore a 5mila euro mensili sono infatti appena una decina di migliaia e costano allo stato 1,8 miliardi di euro annui.
Ristretta è anche la platea dei pensionati d’oro che non sono a carico dell’Inps ma pesano comunque sulle casse dello Stato. Sono gli ex deputati e senatori, i giudici e dei dipendenti della Corte Costituzionale, il personale della Camera e del Senato e della Regione Sicilia. Ma in queste cariche per lo più politiche non voglio addentrarmi.
Sommati ai pensionati aurei dell’Inps la schiera tanto vituperata e bersagliata, ammonta ad alcune decine di migliaia di persone, che costano nemmeno 2 miliardi all’anno.
Lo stesso Tito Boeri quantificava il risparmio per il solo Inps in media in una cifra oscillante di poco meno di 50,2 milioni di Euro annui. Il governo è più ottimista, ma si tratta comunque di una goccia nel mare del debito pubblico.
I rilievi giuridici
Da un punto di vista giuridico la soluzione del contributo di solidarietà appare altrettanto debole, stanti le pronunce che in passato la Corte Costituzionale ha formulato sui precedenti contributi di solidarietà, previsti sin dal governo Berlusconi (ministro Tremonti) in poi, che li ha sempre di fatto bocciati, fino alla pronuncia n.173 del 2016, nella quale, chiamata a dirimere il precedente del governo Letta (taglio delle pensioni più elevate per finanziare gli esodati), ha sentenziato in favore della soluzione Renzi (gli amici non si scontentano mai), ma preannunciando per il futuro una delibazione di costituzionalità più rigorosa. Più stretto in tema di “principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato”.
Una questione etica intergenerazionale
Queste le ragioni economiche e giuridiche alla base di una giusta intangibilità di ciò che lo Stato ha promesso ai lavoratori in età contributiva, per non colpirli proditoriamente (il riferimento a Prodi non è casuale) quando sono più deboli e anziani e non possono più porre rimedio ad un cambio di rotta legislativa su diritti quesiti sostanzialmente oramai immutabili.
Ma dal punto di vista mio personale ritengo che non solo sia odioso cambiare in corsa le regole sulla pelle dei lavoratori, ma sia anche moralmente sbagliato penalizzare chi ha guadagnato di più e più ha lasciato di contributi nella sua carriera.
In Italia la meritocrazia non esiste, lo sappiamo, chi guadagna molto è visto con invidia e cattiveria secondi solo al pauperismo cattocomunista di cui è impregnata la mostra mentalità piccolo borghese per la quale lo stipendio di ognuno di noi non dovrebbe poi discostarsi di molto dalla quota di sopravvivenza.
Guadagni di più? Devi pagare anche di più le spese sanitarie, questa è la logica sbagliata. Come se non fosse vero che guadagnando di più già si pagano più tasse, molte più tasse.
Da che mondo è mondo i Generali guadagnano più dei Caporali, e guai che non fosse così: chi affronterebbe percorsi ostici e assunzioni di responsabilità se a fronte di queste non vi fosse in premio un’ elevazione sociale ed economica?
Il concetto tutto italiano che i “ ricchi ” debbano essere in tutto penalizzati, e passare nella cruna dell’ago, porta solo alla paralisi dell’economia e dello sviluppo di una società e di una nazione; al contrario facendo leva sulle legittime aspirazioni ed ambizioni personali si fa progredire un paese. Mi rendo conto che questa sia una visione individualista per lo più statunitense ed anglosassone, ma i risultati della diversa nostra convinzione sono sotto gli occhi di tutti: un paese immobile che vive di rancori e rimpianti.
Ed allora voglio giustificare la mia propensione a non toccare le pensioni più elevate partendo proprio dall’assunto, dall’argomento principe di cui si riempiono la bocca i soloni che vorrebbero che tutti guadagnassimo 800 euro al mese, cioè la tanto decantata solidarietà intergenerazionale. In base a questo principio i pensionati più abbienti dovrebbero essere tassati per venire incontro ai giovani e rimpinguare con i proventi gli esigui guadagni dei giovani lavoratori spesso temporanei ed a tempo non indeterminato.
Ebbene vi stupirà constatare che questo i pensionati, tutti i pensionati anche quelli d’argento o di bronzo, già lo fanno.
Dove credete che finiscano le liquidazioni o i trattamenti di fine rapporto? Perlopiù ad acquistare un’abitazione ai figli o ai nipoti, con le cosiddette liberalità indirette, cioè intestando l’immobile al giovane, o destinandolo ad essere a lui lasciato in eredità.
Ciò che non necessita alla vita di una persona anziana e pensionata, normalmente scevra di grandi vizi o necessità, viene elargito ai rappresentanti delle generazioni successive, o risparmiato e serbato per la loro successione, per garantire loro un futuro.
Sappiamo che è così, lo vediamo nelle nostre famiglie, in quelle dei nostri amici.
Ed è una solidarietà diretta, non mediata da inutili aggravi e carrozzoni burocratici e statali: il 100% di quanto si decide di dare, arriva nelle tasche di coloro che si vogliono aiutare, facile capire che se ci si mettesse di mezzo la Stato, tale quota sarebbe forse il 40%, al netto di organizzazione, burocrazia, distrazioni, tassazione e furbate varie.
E allora, Signori al governo, lasciate in pace i nostri anziani che le pensioni d’oro si sono meritate, perché quei soldi costituiscono il tesoro su cui le nuove generazioni costruiranno il loro futuro. E non quello che voi scialacquereste nel giro di pochi mesi per le vostra politiche assistenziali. Pochi soldi per i vostri conti, un tesoro per le loro famiglie.
Per una vera solidarietà ed equità generazionale lasciate che le vecchie generazioni agiscano con il loro metro di giudizio, quello che ha permesso a questo paese di essere all’avanguardia nei tempi trascorsi. E lo facciano direttamente.
Quello che per voi è una goccia nel mare del bilancio disastrato dello Stato, per molte nuove famiglie di oggi rappresenta la differenza tra essere benestanti o sopravvivere sulla soglia della povertà.