L’epidemia del batterio resistente agli antibiotici che sta dilagando nell’area nord-ovest della Toscana purtroppo non è una novità nel nostro Paese. “Il New Delhi è un ceppo nuovo di Klebsiella, un batterio multiresistente ai farmaci che in passato ha colpito tanti nostri ospedali – rimarca Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità (Iss) -. Questi microrganismi si trasmettono attraverso le mani degli operatori sanitari o procedure mediche invasive, ferite, il contatto con dispositivi medici infetti o feci dei pazienti colonizzati. Anche un paziente che passa da un ospedale all’altro lo può diffondere”.
I reparti più esposti al rischio contagio sono le terapie intensive “dove i malati sono più fragili e hanno le difese immunitarie molto basse” sottolinea Rezza. La minaccia dei batteri killer è molto seria da noi. L’Italia è tra i Paesi europei con i tassi più elevati di antibiotico-resistenza e con il primato di morti per questo fenomeno: oltre 10mila ogni anno su 33mila circa secondo i dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc, European centre for disease prevention and control). Impressionante anche il numero delle infezioni batteriche che rendono inefficaci gli antibiotici: 200mila ogni anno soltanto nei nostri ospedali e 640mila se consideriamo tutta l’Unione europea.
La Regione Toscana non appena ha riscontrato la diffusione del New Delhi nelle sue strutture sanitarie a novembre 2018 ha inviato una segnalazione al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc, da European centre for disease prevention and control). E lo scorso maggio ha costituito un’unità di crisi che ha messo a punto un documento con le indicazioni per contrastare l’epidemia. Francesco Menichetti fa parte della task force e dirige il reparto di Malattie infettive dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana, che ha registrato il 70 per cento dei casi di infezione da New Delhi: “Per controllare la diffusione del batterio abbiamo esteso la sorveglianza attiva delle colonizzazioni nei pazienti, che già facevamo nella terapia intensiva, a tutti i reparti più delicati. Quello di oncologia, ematologia, trapianti e anche di medicina interna – spiega il medico -. Lo screening si esegue con un tampone rettale. Inoltre abbiamo rafforzato le misure di isolamento da contatto. Come l’obbligo di indossare copricamice, guanti, calzari e mascherina per chi assiste il malato e l’obbligo di lavarsi le mani ogni volta”. Il batterio multiresistente colpisce i pazienti più deboli. “Il 50 per cento sono malati di cancro – osserva Menichetti -. In generale le vittime sono anziani, immunodepressi, trapiantati, chi ha malattie concomitanti come cardiopatia e diabete”. Risultando inefficaci gli antibiotici più potenti e recenti usati in corsia, “si procede con un cocktail di altri antibiotici finché il paziente non reagisce” conclude il medico.
La resistenza agli antibiotici si sviluppa a causa di un uso eccessivo e inadeguato di questi farmaci. “L’antibiotico in pratica uccide i ceppi sensibili selezionando quelli resistenti” spiega Rezza. Un piano nazionale di contrasto a questa emergenza esiste ma zoppica un po’. Presentato nel 2017 dal ministero della Salute, chiede alle regioni di perseguire misure di sorveglianza, prevenzione e correzione, a isorisorse infatti. Cioè senza nuovi investimenti. “E pensare che i Paesi che investono di più in prevenzione come Olanda e Gran Bretagna sono quelli che in realtà hanno i livelli più bassi di antibiotico-resistenza – sottolinea Rezza -. Questo significa che non va mai abbassata la guardia, anche quando il problema sembra non esserci, e che servono molte risorse”. Qualcosa però si è riuscito a fare comunque. “Oggi i dati delle specie batteriche multiresistenti più importanti isolate nei pazienti infetti ci arrivano da tutte le regioni, non abbiamo più buchi, e coprono il 40 per cento delle giornate di degenza – annuncia al Fattoquotidiano.it Annalisa Pantosti, responsabile del reparto di Antibiotico-resistenza dell’Iss -. In tutto sono già cento i laboratori di microbiologia, che servono più ospedali, che collaborano al monitoraggio”.
Chiara Daina per Il Fatto Quotidiano