Quand’ero piccolo e vivevo a Bisceglie credevo che i giudici fossero entità invisibili e ineffabili, come gli angeli, gli arcangeli, i cherubini e i serafini. Pensavo che il Tribunale non fosse a Trani o a Bari ma nell’alto dei cieli e che giudicassero da lì, in quella sede remota, al riparo dagli umani e dalle loro miserie. Se dovevo figurarmi un giudice nell’esercizio delle sue funzioni lo immaginavo come Zorro, il giustiziere dalla doppia vita, svolazzante col suo mantello nero che in gergo chiamavano toga, la spada sguainata e la maschera sul viso per non farsi riconoscere.
Il giudice faceva un mestiere sacro, ai miei occhi, decideva i salvati e i dannati, puniva i cattivi, difendeva i buoni, proteggeva le vittime, i bambini e gli indifesi della terra. Si chiudeva in un luogo misterioso, poi usciva con la corte ed emetteva la sua sentenza. Era una via di mezzo tra il monsignore e l’arbitro di calcio, e infatti vestiva di nero come loro; decideva lui e non c’erano santi che potessero contestare o solo criticare la decisione. Cit so’ u’arbetr, Zitto sono l’arbitro, diceva perentorio un rustico direttore di gara del mio paese.
In effetti, al circolo Risorgimento che frequentava mio padre c’era il Cavaliere, il Commendatore, il Dottore, il Ragioniere, il Professore, l’Avvocato, persino il Colonnello, ma non avevo mai visto un giudice dal vivo, in carne e ossa. Magari col senno di poi, c’era una spiegazione: non c’erano giudici perché a Bisceglie non c’era il tribunale.
Col tempo pensai che i giudici non fossero entità mitologiche bensì uomini come noi, ma che non dicessero mai in giro il loro mestiere segreto, a latere, per usare sempre il loro gergo, per non inquinare i processi, non farsi condizionare, e non perdere la loro equità super partes.
Una volta sospettai che un signore, soprannominato al paese Salomone, facesse il giudice, ma lui negava; conobbi col tempo una controfigura del giudice che chiamavano il Pretore. Ma non capivo il suo ruolo anche perché al mio paese c’era una spiaggia, dove andavo da piccolo, che si chiamava il Pretore ed era accanto a un’altra che si chiamava il Macello. Dunque non capivo se il Pretore facesse il bagnino e poi all’occorrenza si travestisse come Zorro da giustiziere e condannasse al macello vitelli e delinquenti. Era proverbiale al mio paese la storia di un malvivente che trascinato davanti ai giudici perché faceva contrabbando in mare, negò addirittura l’esistenza del mare a Bisceglie. Rispose con candore per provare la sua innocenza: Prcé sta u’ mar a Vescegghie? Perché c’è il mare a Bisceglie? E il giudice, condannandolo anche per aver così spudoratamente mentito, rispose: “Sta u’ mar, sta la terr e sta u’diavuu che t’afferr”, c’è il mare, c’è la terra e c’è il diavolo che t’afferra. E questa storia mi confermava che il giudice lavorasse con l’oltretomba, a stretto contatto coi diavoli, e mandasse i colpevoli all’inferno.
Crescendo, continuai da giovane ad apprezzare nei magistrati la sobrietà che sconfinava nell’anonimato, il loro non apparire in pubblico, la loro riservatezza, segno d’imparzialità e serietà. Li ammirai fino al tempo in cui alcuni di loro persero la vita contro la mafia.
Pensavo che i giudici dovessero mantenere quella loro sacrale distanza dalla politica, dagli affari e dai malaffari, dalla vetrina. Poi quando diventai grande e vidi i giudici diventare delle star e delle soubrette, stare dappertutto, fare politica o farsi accecare dall’ideologia; e poi aggiustare le sentenze, usare il Csm per i propri interessi, fare carriera sulla pelle della gente e della giustizia; o diventare romanzieri, sceneggiatori, politici, personaggi televisivi, capì che i giudici erano come tutti gli altri, non meglio né peggio ma con un potere più grande e intoccabile, più dei politici.
Credere che il Giudice fosse Zorro era stata una bambinata, come credere alla Befana.