Le morti assistite risultano essere in costante aumento in tutti i paesi dove il ricorso all’eutanasia è consentito.
L’emergenza sanitaria in corso sembra non aver influenzato affatto questo dato.
Questo perché, come scrive la professoressa Assuntina Morresi in un suo articolo apparso recentemente su Avvenire.
“Se aumenta la domanda cresce anche l’offerta del “servizio eutanasico. In Olanda, ad esempio, nel tempo si è sviluppata una rete di professionalità dedicate a chi vuole pianificare la propria morte”.
Insomma, è come un circolo vizioso: un trend difficile da arrestare e tantomeno da invertire.
Ne abbiamo parlato proprio con la professoressa Morresi.
In una sua disamina sul tema dell’eutanasia, comparsa recentemente su Avvenire lei scrive che se l’Italia dovesse diventare, come l’Olanda, sul tema dell’eutanasia, ci sarebbero 30.000 morti in più. Perché, numeri così grandi?
«Ho considerato la percentuale di morti su richiesta in Olanda – eutanasia e suicidio assistito, la differenza è solo procedurale – nel 2020, pari al 4,5% di tutti i decessi, al netto di quelli dovuti al Covid, e ho calcolato cosa sarebbe successo in Italia con la stessa percentuale di morti procurate. Per chiarire: se quella fosse stata la percentuale di eutanasia in Italia, le morti medicalmente procurate sarebbero state 30.000. Un numero che fa capire che queste leggi, una volta approvate, non riguardano pochi casi estremi ma decine di migliaia di persone, tra l’altro una quantità in aumento costante negli anni. Dovrebbe essere un elemento di riflessione fondamentale per chi sostiene la necessità di certe leggi: quale società stiamo costruendo se sempre più persone preferiscono la morte alla vita?».
Lei riporta anche una dichiarazione di Jeroen Recourt presidente della Rte.
“Sempre più generazioni vedono l’eutanasia come una soluzione per una sofferenza insopportabile”. Cosa denota questa constatazione?
«Denota che sempre più persone ritengono la propria vita una sofferenza intollerabile. È doveroso chiedersene il perché: stanno aumentando le patologie incurabili? Stanno aumentando le persone che non hanno accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore? O forse, essendo un fenomeno che si osserva in tutti i paesi in cui queste leggi sono in vigore, sempre più persone pensano che questa è l’unica via di uscita a una situazione di sofferenza, dove per “sofferenza” si intende anche qualcosa di diverso dal dolore fisico, come può essere, ad esempio, la mancanza di autonomia? Anche chi è a favore di queste leggi dovrebbe interrogarsi, a meno che la scelta di morire si ritenga di pari valore di quella di vivere: se così fosse, significherebbe che se qualcuno oggi ci viene a dire “soffro troppo, voglio morire” noi dovremmo intervenire dando la morte. Siamo ridotti così?».
Secondo Lei, quali sfide, la “dolce morte” pone ai medici?
«Cambia radicalmente il paradigma su cui si fonda la medicina, nata per allontanare la morte. Con tutte le conseguenze del caso: ad esempio, perché ostinarsi a cercare cure per malattie gravi, o perché cercare strade per accompagnare al meglio fino alla fine i malati inguaribili, magari investendo per questo tante risorse preziose in tempo e denaro, quando c’è una strada più “semplice”? Cioè quando si possono eliminare i malati, su loro stessa richiesta?
Il principio dell’autodeterminazione del soggetto può arrivare a giustificare il ricorso all’eutanasia e perché?
«Si, è la piena autodeterminazione come via per la piena realizzazione di sé il principio che legittima l’eutanasia: la logica alla base è che “ciò che riguarda la mia vita e la mia morte è esclusivamente deciso da me e quello che viene come conseguenza delle mie decisioni non mi interessa”».
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