Ma dov’erano le anime belle che ora insorgono indignate per “la provocazione sovranista” di ricordare Jan Palach, ai tempi dei carri armati e poi in tutti gli anni seguenti in cui fu ricordato quel sacrificio? Perché non hanno ricordato loro quell’esempio e poi gli altri esempi di tanti ragazzi che prima in Ungheria, poi in Polonia e nel resto del mondo hanno pagato la vita per ribellarsi al comunismo? Vogliono far passare la falsa leggenda che, a parte qualche vecchio comunista d’apparato, la sinistra nostrana era libertaria sin da quel dì e si era schierata dalla parte degli insorti, che poi – a loro insindacabile giudizio- erano tutti di sinistra libertaria, mica altro. E dunque se oggi a destra, o nel concerto dei gruppi musicali a Verona, qualcuno insiste a ricordare le gesta di Jan Palach e dei suoi emuli, si appropria di memorie non loro, compie una provocazione fascista, che oggi viene aggiornata in “provocazione sovranista”.
La leggenda delle Anime Belle viene pompata da alcuni casi come il gruppo del manifesto che dopo i fatti di Praga acuì il suo dissenso e uscì dal Pci. Ecco, dov’erano i sessantottini, i libertari, i progressisti e i radical di quel tempo, di ieri e di oggi. Dalla parte degli insorti, dicono oggi. Si omette un piccolo gigantesco dettaglio: i suddetti non erano allineati all’Unione Sovietica non per amor di libertà ma perché all’epoca erano tutti con quel vecchio liberale di Mao Tse Tung (poi diventato Dong). Avete presente chi è stato Mao? Il dittatore che ha ucciso più di tutti in tutti i tempi, rispetto a cui Stalin e Hitler se fossero rimasti insieme come nel ’39 avrebbero persino assommato vittime minori. E i massacri di Mao avvenivano non in tempo di guerra e nemmeno al momento in cui conquistò il potere, ma dopo anni, quando il dittatore cinese indisse la rivoluzione culturale. Che espressione soave e intellettuale per una strage di milioni di cinesi, o per la rieducazione forzata di altri, a suon di torture, lager, umiliazioni e autodenunce.
Ma di quel maoismo, oltre che di Castro, Ho Chi Min, perfino Pol Pot, s’infatuarono i nostri sessantottini, e tutti coloro che poi si iscrissero alla sinistra libertaria. Non è una denuncia contro ignoti. Si possono fare i nomi. Oltre il gruppo intero del manifesto (di cui solo Luigi Pintor ebbe l’onestà di ammettere anni dopo l’errore/orrore), c’era mezzo Movimento studentesco, a partire dai capi e dallo stesso Mario Capanna, c’era il partito comunista d’Italia, Servire il popolo dove militava gente come Michele Santoro, molti militanti di Lotta Continua e di Potere operaio, c’erano avanguardie cinesi, i movimenti filocinesi nelle scuole e nelle università e c’era l’intellighentia sinistrese del tempo: Alberto Moravia e Maria Antonietta Macciocchi, Enrica Collotti Pischel e Renata Pisu, Edoardo Sanguineti e Dario Fo, Alberto Jacoviello e Franca Basaglia, Alberto Cavallari e Furio Colombo, Marco Bellocchio. E perfino tra i cattolici, non solo i catto-comunisti, non mancarono dichiarazioni d’amore a Mao di Raniero La Valle e Benigno Zaccagnini, Vittorino Colombo. Pur di fare un dispetto ai comunisti tra i socialisti si unì perfino un giovane Craxi e un maturo Pietro Nenni che aveva alle spalle anche un elogio sperticato di Stalin. Ve ne risparmio tanti altri, oltre naturalmente gli intellettuali francesi che sono sempre in prima fila con le infatuazioni gauchiste (non a caso anche nel caso Battisti), ma che all’epoca annoveravano calibri maoisti del tipo di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, Jean-Luc Godard, Louis Althusser e Roger Garaudy, poi approdato all’islamismo. E vi risparmio il favoloso mondo del cinema, della musica e delle arti. I suddetti sognavano la rivoluzione culturale anche da noi, e per certi versi l’hanno fatta, in modo incruento ma intollerante.
Dovreste leggere gli scritti del tempo o in mancanza, ricorrere a libri come quello di Paul Hollander, Pellegrini politici (Il Mulino), o più recentemente, “Quel che resta di Mao”, a cura di Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi (ed.Lemmonier).
Ora gli eredi di questa gente, i sessantottini sessantottenni di oggi, i vopos de la repubblica antifascista, i cani morti del comunismo, vorrebbero impedire a chi da sempre ha difeso la rivolta e poi la memoria di quegli insorti, di ricordarli cinquant’anni dopo. Al punto che gli infami, agli occhi di queste anime belle, non sarebbero quei regimi comunisti che li hanno schiacciati nel sangue o contro cui si sono sacrificati quei giovani. Ma i fascisti o, mutatis mutandis, i sovranisti che si permettono di celebrarne la memoria.
Capite che il caso Battisti si ripete all’infinito, è un copione già scritto: l’infame non è chi uccise quattro persone ma chi si fa bello nello sbatterlo dentro… Come se un tweet o una tutina, pur deplorevoli, siano più gravi di vite massacrate e di altre distrutte e più gravi delle complicità con quegli assassini. O come se una chitarra in memoria e in onore di Jan Palach fosse più infame di un carro armato che marciò su Praga schiacciando la libertà di un popolo. Passano i decenni, ma siete rimasti delinquenti ideologici come allora, o come i vostri padri, i vostri fratelli maggiori.
MV, La Verità 17 gennaio 2019