Un’odissea durata 33 anni e che si è conclusa solo lo scorso 26 Gennaio quella di Beniamino Zuncheddu, dichiarato innocente dopo decenni di detenzione e al termine di una revisione processuale presso la Corte d’Appello di Cagliari,
Una giustizia che non funziona
Zuncheddu, condannato a una gravosa pena detentiva per un delitto mai commesso, diventa l’emblema di una Giustizia che non funziona. Una giustizia lenta farraginosa e piena di errori che non di rado conducono gente innocente dietro le sbarre. Che sacrificano l’esistenza di persone la cui vita rimane inesorabilmente distrutta da burocrati di Stato che con estrema leggerezza trattano il tema della responsabilità penale e della libertà individuale.
Una giustizia, insomma, da riformare, anche in punto di responsabilità per chi commette un simile genere di errori e che non solo non paga, ma sovente fa carriera.
La vicenda di Beniamino Zuncheddu
La vicenda di Zuncheddu inizia l’8 Gennaio 1991 quando sulle montagne di Sinnai presso l’ovile di Cuile is Coccus si consuma una efferata strage che porta alla morte di tre persone.
Una faida fra pastori, diranno all’epoca gli inquirenti. Le indagini – superficiali – si concentreranno esclusivamente in quella direzione.
E poiché c’erano state precedenti dissapori tra Zuncheddu e Fadda, il primo viene considerato colpevole. Su quali basi? Invero, la sola testimonianza del Luigi Pinna, unico sopravvissuto alla strage, sedicente e creduto testimone oculare della strage, sarà l’unico elemento sulla cui base si fonderà la condanna. Pinna dichiarò di aver visto il volto dello Zuncheddu quell’8 gennaio.
Poco importa del il volto del killer era coperto da una calza scura che ne rendeva quantomeno difficoltosa l’identificazione. Poco importa se le condizioni di visibilità fossero assai precarie. Insomma, perché mai approfondire le indagini quanto Il colpevole era già servito. C’è il movente, c’è il testimone. Game set match. E siamo pronti a passare al prossimo fascicolo.
Riaprire le indagini e revisionare il processo
Eppure…. Eppure qualcuno non si arrende. La famiglia di Zuncheddu e l’Avv. MauioTrogu che in questi anni hanno creduto nell’innocenza di Beniamino e hanno rivoltato il caso fino a trovare il bandolo della matassa.
Si è insistito per ricreare le medesime condizioni di quel tragico giorno, si è ricostruito l’evento delittuoso rendendolo il più possibile analogo a quello di cui al processo. E… sorpresa! Il volto visto del killer nascosto da una calza non è visibile. Pinna non poteva aver riconosciuto, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’identità del killer. Il processo è una farsa. La giustizia è defunta.
Bravo dunque all’Avv. Trogu a non essersi arreso e ad avereche ora giustamente ritiene che al suo assistito le istituzioni debbano delle scuse. Arriveranno? Forse sì. Basteranno? Sicuramente no.
E certamente una speciale menzione, in questa amara vicenda, va sicuramente al Partito Radicale – da sempre in prima linea nella lotta per una giustizia giusta e vicino alle vittime degli abusi giudiziari – che, in particolare con Irene Testa, ha supportato con la consueta determinazione e sensibilità la difesa di Zuncheddu anche nei momenti più disperati e si è adoperato per la riapertura del caso e per la revisione del processo.
Come è stato possibile?
La domanda rimane ancora inalterata dopo 33 anni. Perchè? Fu solo impreparazione e superficialità degli inquirenti? O c’è qualcos’altro. Qualcosa di più misterioso, e al contempo inquietante. Contano forse quelle “logiche che riguardano un determinato territorio”, come ha dichiarato l’allora procuratrice generale dell’allora Corte d’Appello di Cagliari Dott.ssa Francesca Nanni?
E quali sono queste logiche – vorremmo sapere – al cui altare è stata sacrificata la giustizia e la vita di un uomo innocente?
Zuncheddu ha sempre professato la propria innocenza
Beniamino Zuncheddu, da canto suo, ha sempre mantenuto alta la fiaccola della propria speranza in quegli 11.958 giorni di prigionia ingiusta ma dichiara di essere stato oggetto di pressione per confessare il delitto. “ Se ti ravvedi ti diamo la libertà” suggeriva qualcuno al detenuto. Ma la logica semplice e al tempo spiazzante dello Zuncheddu non ammette discussione. “perché ravvedermi se sono innocente?”
Indebite pressioni
Ma l’ombra nera di quelle pressioni rimane. Chi, avvedendosi dell’errore commesso, ha tentato di falsificare la realtà? Probabilmente non lo sapremo mai, e probabilmente non avremo la possibilità di veder punito chi ha commesso quegli errori. Roba vecchia si dirà! La totalità dei soggetti coinvolti è deceduta o già in pensione. Non ci saranno indagini verosimilmente su questo marchiano errore giudiziario che ricorda da vicino il caso di Enzo Tortora, altro martire di una giustizia improntata alla superficialità e alla pericolosità.
Conseguenze incancellabili
Oggi Beniamino riacquista una libertà nella quale credeva fermamente ma alla quale non riesce ancora ad abituarsi. Una tragedia alla quale lo stesso Zuncheddu non riesce – comprensibilmente a darsi una spiegazione. E la fine dell’incubo non è sufficiente a razionalizzare e metabolizzare una situazione così difficile.
“Sto male, mi devo curare” dichiara alla stampa. E come non comprendere questo pover’uomo devastato da 33 anni di ingiusta detenzione. Certo, ci sarà un giudizio risarcitorio, probabilmente verrà corrisposta una somma considerevole. Tutto giusto. Ma nessuna somma potrà ripagare una vita rovinata.
Zuncheddu aveva 27 anni al momento dell’arresto e adesso ne ha 60. Ha perso gli anni migliori della propria vita. La giovinezza, i sogni, la costruzione di una vita che invece ha passato in galera. Chi glieli restituirà?
Una riflessione sulla giustizia
La vicenda Zuncheddu dovrebbe interrogare dunque tutti noi. Dovrebbe far breccia nelle nostre addormentate coscienze che vedono nella giustizia sempre meno un presidio di libertà e sempre più una forma di vendetta dello Stato. E, invece, ben poco di questo sconvolgimento si vede nelle Istituizioni, nella pubblica opinione e nella magistratura.
Il valore dell’Avvocatura
Ma questa vicenda ci insegna anche il valore costituzionale dell’avvocatura, della strenua necessità di difendere la classe forense, che con tutti suoi limiti ed errori, rimane ancora presidio di libertà contro l’arbitrio. Una classe di tanti professionisti che spesso in condizioni disperate, non rinuncia a battersi per una giustizia soverchiata dalla burocrazia di stato. Un vero presidio di libertà che non va dimenticato.
Pertanto è lecito invocare una riforma che tenga conto di questi fatti che sono tutt’altro che rari. Una riforma che limiti l’arbitrio del potere pubblico e che garantisca al cittadino ogni possibile riparo dall’ingiustizia.
Noi ci crediamo! Per Beniamino e per tutti gli altri
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