L’Aggravante di Crudeltà nel Caso Turetta: Quando la Giustizia si Scontra con il Sentire Comune
Riceviamo e pubblichiamo il contributo Dell’Avv. Stefania Vettorato
Di fronte alla recente sentenza che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per l’omicidio di Giulia Cecchettin, l’Italia si divide tra il rigore giuridico e l’indignazione popolare. Il cuore del dibattito: l’esclusione dell’aggravante della crudeltà.
In questi giorni, il dibattito pubblico attorno alla sentenza Turetta si è acceso come poche volte prima d’ora. Da una parte c’è l’indignazione diffusa tra l’opinione pubblica, dall’altra la difesa dei tecnicismi giuridici da parte di esperti e professionisti del diritto. Alcuni giuristi, infatti, hanno liquidato le critiche della gente come frutto di scarsa competenza giuridica
Eppure, molti cittadini dimostrano di aver compreso, almeno nei concetti fondamentali, cosa implichi un’aggravante come quella della crudeltà.
È chiaro a tutti che ogni omicidio, per sua natura, è un atto crudele. Ma nel linguaggio del diritto, la “crudeltà” è un’aggravante specifica: deve rappresentare un quid pluris, un elemento aggiuntivo rispetto all’atto omicidiario in sé. Proprio per questo si chiama “aggravante”.
E proprio qui si concentra il disappunto: nel caso in questione, questa circostanza non è stata riconosciuta, nonostante gli elementi che, secondo molti, l’avrebbero pienamente giustificata
L’atto di Turetta, ricordiamo, si è concretizzato in 75 coltellate. Una cifra che, per la stragrande maggioranza delle persone, è sinonimo inequivocabile di accanimento, di volontà di infliggere un dolore estremo, forse anche dopo la morte. La sentenza, tuttavia, esclude che ci sia stata volontà di causare sofferenze ulteriori rispetto alla morte stessa. Una conclusione che, per molti, risulta non solo difficile da accettare, ma anche lesiva della memoria della vittima.
Si potrebbe sostenere – come fanno alcuni – che proprio l’inesperienza dell’omicida abbia portato a una morte particolarmente agonizzante. Non un’esecuzione “fredda” e immediata, ma una serie di coltellate, verosimilmente anche dopo che la ragazza era già esanime. In questo scenario, la crudeltà non risiederebbe solo nel numero dei colpi, ma nel dolore prolungato e nella violenza reiterata che quel gesto ha comportato
È anche da questo che nasce l’indignazione: dalla sensazione che non sia stata fatta giustizia piena. Se Turetta avesse usato una pistola, forse il diritto non avrebbe trovato spazio per l’aggravante della crudeltà. Ma avendo scelto di colpire con un coltello – e di farlo ben 75 volte – si ha la netta impressione che quell’atto sia andato ben oltre l’intento di uccidere. È stato, anche secondo la logica giuridica, un atto crudele.
Il rischio, ora, è quello di creare un precedente pericoloso: un punto di riferimento che, in futuro, potrebbe portare all’esclusione dell’aggravante anche in altri casi di violenza estrema, purché l’intento venga considerato unicamente omicidiario. Ma possiamo davvero accettare una giustizia che ignora la sofferenza inflitta alla vittima in nome della coerenza con una dottrina astratta?
In conclusione, questa vicenda ha acceso un riflettore su una frattura profonda tra il linguaggio del diritto e la percezione comune della giustizia.
E se è vero che il diritto non può fondarsi solo sull’emotività, è altrettanto vero che non può permettersi di ignorarla completamente
Perché la giustizia, in uno Stato democratico, deve essere anche comprensibile e condivisibile da chi la subisce e da chi la osserva.
Leggi anche:
www.facebook.com/adhocnewsitalia
SEGUICI SU GOOGLE NEWS: NEWS.GOOGLE.IT