Ma l’arte come se la passa in questa lunga, deprimente cattività? Dico l’arte come vena creativa, come visione, invenzione, fruizione. Ci può essere arte senza mondo e senza relazione o sarà al più un’arte della memoria, che vive del passato e confida nel ripristino futuro, mancandogli il presente?
Nel 1987 Jean Baudrillard prefigurò l’arte senza pubblico e trasse esempio dalla partita di calcio giocata a porte chiuse tra Real Madrid e Napoli per la Coppa dei Campioni. Stadio deserto per squalifica, pubblico da casa. Proprio come ora. Baudrillard osservò: “Le peripezie dell’arte attuale si svolgono come l’incontro di Madrid, davanti a uno stadio vuoto, in assenza di qualsiasi referenza estetica reale, come un evento astratto di cui solo l’amplificazione mediatica ci ossessiona”.
È l’avvento del transestetico, in linea col transpolitico e col transessuale. Per Baudrillard la modernità fallisce perché non ha trasmutato i valori e proclama che tutto è arte, tutto è politico, tutto è sesso. Ma quando tutto è arte niente è arte, quando tutto è politico niente è politico, quando tutto è sesso niente è sesso. Tutto è trans, mutante, come Michael Jackson – notò Baudrillard – che si rifà il viso e si schiarisce la pelle.
In un’altra conferenza tenuta a New York nello stesso anno, il sociologo annunciò “la sparizione dell’arte” che aveva raggiunto il suo punto di vanificazione; l’arte si spalmava nella realtà, nasceva l’estetizzazione del mondo. L’arte è ovunque perché è sparita nel suo luogo originale. Tutto è arte, niente è arte. Ciò che le sopravvive vuole scioccare, sorprendere, è stranezza & irrealtà. Oltre la simulazione e l’iconoclastia si compie il “nichilismo definitivo”. “Mirare alla nullità essendo già nulla”. Domina l’insignificanza. Riaffiora il passato non come tradizione ma come citazione ironica o come compostaggio.
Sulle sue orme Ugo Nespolo, artista e teorico dell’arte, coglie gli effetti di quella parabola in un denso libretto, Per non morire d’arte (Einaudi, pp.140,12 euro). Immersi in un brodo creativo svuotato di pensieri e certezze, in preda alla malinconia di vivere nel tempo della superchiacchiera e dell’indifferenza estetica, resta la beffa del mercato dell’arte, “la dannazione del prezzo” che dà valore alle cose, rovesciando la realtà e i rapporti di valore. La libertà si fa tirannica mentre la postmodernità affoga nel relativismo. Quasi alludendo all’oggi Nespolo cita Il respiro di Thomas Bernhard: “L’artista ha l’obbligo di farsi ricoverare di tanto in tanto in ospedale” o in un carcere o un convento, cioè in “un quartiere del pensare”, per non “smarrirsi nella futilità” e restare “impigliato alla superficie delle cose”. L’arte va in terapia intensiva.
È caduto il confine tra arte e non arte, notava Peter Burger. Frutto della convinzione (ereditata dal ’68) che la creatività sia universale: tutti sono artisti, non ci sono più confini tra bello e brutto, tra valore e disvalore, tra genio e banalità. L’estetizzazione del mondo coincide con la democratizzazione dell’arte e produce la fine dell’arte (e per altri versi, della democrazia).
L’arte non è nell’opera ma nelle intenzioni del soggetto (cosa ha voluto dire l’artista); il narcisismo e lo psicanalismo stuprano la realtà; l’arte perde la sua aura, il mito e la bellezza. Al loro posto lo sconcerto, il messaggio o la denuncia, la decomposizione del reale. Restano i capolavori del passato; dell’arte resta il museo.
“Adotta un arista e convincilo a smettere per il suo bene” è il titolo significativo di un nuovo saggio di Echaurren. «Negli anni Settanta – dice- il sogno era uccidere l’arte e farla resuscitare nella vita quotidiana, ora ha vinto il mercato»
Ma non sono le ultime correnti artistiche ad aver vanificato l’arte. E’ un processo lungo e secolare, con le sue tappe: la morte del sacro, la fine della natura, la scomparsa della realtà, la perdita della visione. In quei passaggi l’arte ha perduto il suo linguaggio e la sua ispirazione. Per rendercene conto facciamo un paragone con la religione. Provate a entrare in una cattedrale eretta nel tempo del sacro e in una moderna edificata con criteri che prescindono dalla sua funzione rituale e liturgica, come ha teorizzato Renzo Piano realizzando la basilica di Padre Pio.
È solo per abitudine che le cattedrali come il duomo di Milano o di Firenze, di Orvieto o in San Marco, il duomo bizantino di Monreale, le chiese barocche di Roma o il romanico pugliese, solo per fare esempi vari di stili e secoli diversi, ci ispirano il senso del sacro e invece la chiesa di S. Giovanni Rotondo o le chiese edificate di recente, siano scambiabili con palestre o fabbriche, mercati o sale congressuali? È che hanno perso il linguaggio del sacro, si uniformano alla società secolare e profana. Le pietre non cantano più, per dirla con Marius Schneider; a quegli edifici strutturalmente atei non si addicono canti gregoriani ma sordi ronzii. Forse l’ultima cattedrale che ha tracce di sacro in piena modernità è la Sagrada Familia di Barcellona, l’incompiuta di Gaudì…
Così accade all’arte. Ha perso il suo linguaggio, la sua aura e la sua motivazione; si confonde con la società, con la non arte, con la pubblicità. A differenza della tecno-scienza, l’arte non fa progressi. Qualche tempo fa Vittorio Sgarbi paragonò l’Urlo di Munch, celebrato in tutto il mondo, al Compianto di Niccolò dell’Arca, poco noto, esaltando quest’ultimo al confronto. Nel primo è figurata l’angoscia, la solitudine e il vuoto, nel secondo c’è lo sgomento personale, corale e universale per la morte di Cristo.
Nel Compianto vibra la Grande Arte, la figurazione e la liberazione dal dolore, la catarsi e la bellezza parlano alla tua anima; l’Urlo di Munch invece appare un incubo, il documento di una sofferenza: non c’è bellezza e redenzione ma l’angoscia parla all’inconscio con un urlo nero e infinito, giallastro e livido come un vomito dell’anima.
Ci possono essere anche i capolavori della non arte, ma resta lo spartiacque: l’assenza di linguaggio e di bellezza, di aura e di motivazione. L’arte al tempo del covid ha raggiunto il suo stadio finale della scomparsa. Ma non è del tutto escluso che dopo la morte ci sia la rinascita o la resurrezione.
MV, La Verità