Fascismo – Andarono a cercar la bella morte molti dei volontari e delle ausiliarie che si arruolarono nella Repubblica Sociale Italiana. Motto d’impronta dannunziana, divenuto poi canto e simbolo di ardimento e baldanza disperata. A cercar la bella morte s’intitolò pure un romanzo di Carlo Mazzantini sulla sua esperienza a Salò. La morte dei fascisti fu l’ultimo libro, postumo, di Giano Accame che si arruolò ragazzo nella Rsi in extremis. Repubblichino per un giorno, inquieto intellettuale di destra sociale per una vita, uso alle eresie e agli incontri trasversali; ma quando morì, nel 2009, volle farsi seppellire con la camicia nera.
La bella morte è ora il titolo di un libro di Gianni Oliva dedicato agli 800mila “uomini e le donne che scelsero la Rsi” in uscita da Mondadori. Oliva è uno storico e un giornalista della sinistra torinese; viene dal Pci, col Pd ha coperto ruoli pubblici. Pur restando in una visuale partigiana, non rinuncia alla verità storica, vuol conoscere le ragioni, le passioni e le versioni di chi stava dall’altra parte; si avvale delle loro testimonianze e riparte dalla ricerca di Renzo De Felice. E infatti, come già aveva fatto con le foibe e altre opere sulla guerra civile, Oliva ha scritto, per dirla con Prezzolini, “un necrologio onesto” dell’ultimo fascismo.
Chi andò a Salò con Mussolini? Oliva distingue i militari che ci andarono per “rifiuto del tradimento e fedeltà alla parola data” dai militanti fascisti che oltre la fedeltà volevano vendicarsi dei traditori e dei voltagabbana. A loro si unirono molti giovanissimi, nati e cresciuti nel mito del duce e del fascismo. La parola che li accomunò fu Onore. Il rispetto per i vinti, richiesto tempo fa da Violante e da Ciampi, è ormai negato: oggi è tempo di condanne eterne e mali assoluti.
Ma vista al di là delle intenzioni di chi si arruolò, perché nacque la Rsi? A fondarla fu un Mussolini stanco e riluttante, che passò “da una prigionia all’altra”, in balia di Hitler. Ma è sbrigativo concludere che l’Rsi sia stato solo un fantoccio nelle mani dei nazisti, come pensavano molti tra gli stessi tedeschi. In questa formula spregiativa non si considerano due fattori. Uno lo spiegò De Felice e Oliva lo riprende: la necessità di creare uno stato che frenasse la furia dei tedeschi verso “l’Italia traditrice” e si frapponesse tra loro e la popolazione italiana. Tesi avallata da Goebbels che non gradì la nascita della Rsi proprio per questo: “Ora non abbiamo più le mani libere in Italia”.
L’altra ragione: non era pensabile che un regime con un duraturo ed entusiastico consenso svanisse da mattina a sera per un ordine del giorno di Palazzo che mise “democraticamente” in minoranza Mussolini e lo depose. Anche Hitler si chiedeva perché il duce avesse convocato il Gran Consiglio ben sapendo a cosa andava incontro. Anche lui ebbe forse il sospetto che il duce volesse uscir di scena e favorire una soluzione negoziale, visti gli esiti disastrosi di una guerra che aveva pensato fosse rapida e poco rovinosa. Ma il fascismo non poteva volatilizzarsi così, da un giorno all’altro; troppa gente ci aveva creduto e scommesso, troppi lasciti, impronte, eredità, conti sospesi.
Oliva percorre le vicende di Salò, gli scontri della guerra civile, riapre la pagina infame della persecuzione degli ebrei. Non usa l’espressione nazifascismo.
E racconta, senza veli, la storia della socializzazione di Salò. Fu la carta estrema del fascismo; velleitaria e tardiva, probabilmente. Ma è curioso registrare, e anche Oliva lo dimostra, la convergenza strategica a boicottare la socializzazione e la cogestione delle imprese da parte dei capitalisti nostrani, in primis la Fiat, dei sindacalisti e partigiani comunisti e degli occupanti nazisti. Divergenti erano le finalità ma comune lo scopo: far saltare l’esperienza più avanzata di socialismo; la cogestione farà poi la fortuna della Germania postbellica.
Con la socializzazione e con la guerra il fascismo tornava alle sue origini: è il destino circolare del fascismo nato da una guerra, morto in una guerra; nato come eresia nazionale del socialismo, morto come eresia sociale del nazionalismo. Il vero peccato originale del fascismo e il codice genetico che lo portò alla tragedia, insito nella sua genesi, era la predisposizione innata alla guerra. Dalla guerra nacque, di guerra morì; non crollò per fallimento politico, sociale o economico, come il comunismo.
Dietro quella vocazione bellica c’era una filosofia che si può sintetizzare in un’espressione nietzscheana: Volontà di Potenza. Paradossalmente la volontà di potenza non era ciò che distingueva il fascismo dal mondo occidentale ma ciò che lo faceva rientrare nell’alveo dell’occidente faustiano, nel suo delirio di espansione e smisuratezza. La fedeltà alla civiltà, al popolo e alla comunità, l’amor patrio, la rivoluzione sociale e la tradizione nazionale e spirituale, ne erano invece il polo opposto. La volontà di potenza fu il male principale del fascismo; non il razzismo, come oggi si ripete, che fu estraneo, posticcio, contraddittorio, frutto dell’alleanza sciagurata col nazismo (si legga De Felice).
Il fascismo prolungò nella vita civile la concezione guerriera da cui scaturì, mentre il comunismo prese il posto della religione, promettendo il paradiso in terra. Il comunismo voleva abolire questo mondo, il fascismo voleva metterlo in riga.
Il primo fascismo era nato e cresciuto nelle trincee della Prima guerra mondiale nel culto dannunziano della bella morte, tra arditi, teschi, camicie nere, culto degli eroi caduti. Alla fine della sua vita, a Salò, ritornò la concezione della bella morte, legata alla visione guerresca e dannunziana. Ma la morte non fu bella.
MV, Panorama n.21 (2021)
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