Ci manca solo che l’Albero natalizio di Piazza Venezia o il presepe a piazza del Popolo prendano fuoco per concludere in modo adeguato a Roma un anno bruciante. Non bastavano i tanti autobus dell’Atac in fuoco, l’incendio dei rifiuti al Salario, gli incendi nei campi rom, il bus turistico incendiato in centro, e perfino un incendio in corsia al reparto infettivi dello Spallanzani per un mozzicone tra le lenzuola. Ora i cassonetti bruciati per l’immondizia debordante.
Il 2018 è stato l’Anno più ustionante della storia di Roma dai tempi di Nerone. Non c’è un nesso tra la Raggi alla guida della Capitale e gli incendi divampati a Roma; sono strampalate le opposte dietrologie che attribuiscono la causa degli incendi alla sgangherata amministrazione grillina e quella opposta di chi li attribuisce a un complotto piromane contro la sindaca.
C’è sicuramente l’obsolescenza della città e dei suoi mezzi di trasporto pubblico, il degrado e l’incuria, e del resto altri incendi divampano nell’Italia, da nord a sud. Ma c’è un accanimento piromane nella Città Eterna che sembra suggerire altre considerazioni. Il fuoco ha sempre accompagnato la decadenza delle città, ed è apparso un segno di condanna e di purificazione per la sua perdizione morale. In altri tempi avrebbero evocato presagi funesti di una città dannata tra le fiamme dell’inferno, ne avrebbero tratto moniti per la città, i suoi abitanti, la Chiesa. Noi, più modestamente, e più ragionevolmente, ci accontentiamo di una lettura simbolica e di un’indicazione del malessere della città. Quando una città si sente poco amata, anzi disprezzata e odiata dai suoi stessi abitanti, trascurata da chi la gestisce, in preda al caos e alla sporcizia, è come se si ammalasse e quasi cercasse di farsi del male, abbandonandosi ai suoi peggiori abitanti. Una città non amata perde il suo sistema immunitario, la sua capacità reattiva, non risponde agli incendi spegnendoli tempestivamente, prima che facciano danni. Si lascia andare, non sorveglia, non rimedia, si abbandona al pessimo e antico “Che me frega”.
Le responsabilità degli incendi sono quasi sempre umane, e spesso sono anche premeditate, e andrebbero individuate e punite; ma quando sono così ripetitive e concomitanti, allora c’è qualcosa nell’aria che appicca gli incendi o li aiuta a propagarsi. C’è uno spirito distruttivo che come alcol prende fuoco. Un brutto presagio.
Da duemila anni ci interroghiamo sulle colpe effettive di Nerone per l’incendio di Roma, fa acqua il racconto dell’Imperatore che suona la cetra, canta sulle rovine infuocate della città e sogna di rifarne una nuova, fiammante. Risalgono ancora le diatribe del tempo, le accuse ai cristiani o ai loro nemici che volevano poi addossare ai cristiani l’incendio. Col passare dei secoli la catastrofe è diventata pure un modo spiritoso di dire, ci ricordiamo più di Alberto Sordi nei panni comici di Nerone che del dramma di una città messa a fuoco e interi quartieri ridotti in cenere. Altrove, a Pompei ed Ercolano, ci pensò il Vesuvio; a Roma, il vulcano fu una manina anonima; quella manina che resta nascosta e misteriosa negli anfratti dei secoli, da Nerone a Di Maio. Eppure Roma aveva sacra dimestichezza col fuoco, c’era il fuoco di Vesta, le case trovavano il loro calore e la loro unità intorno al focolare, le fiaccole illuminavano la città. E non escludo che la decrescita felice dei grillini preveda un ritorno al fuoco per risparmiare la corrente elettrica.
Tra il sacro e il faceto, resta però il mistero di così tanti focolai nella Città Eterna. Si è accesa la spia e segnala che qualcosa di serio non va a Roma. A volte chi incendia è un amante tradito, che ha preso troppo sul serio lo slogan pubblicitario: Chi ama brucia.
MV, Il Tempo 28 dicembre 2018