Il caso di Giulia Cecchettin non si è ancora chiuso, e già gli avvoltoi ballano sul suo corpo martoriato dalle coltellate inferte dall’ex fidanzato Nicola Turetta.
Strumentalizzazioni da ogni parte, tutti tirano per la giacchetta quella povera ragazza vittima di un brutale omicidio.
Ed ecco che fioccano i novelli saggi. I duri e puri della pena e gli eterni finti complessi, pieni di pelosa retorica a senso unico.
Strumentalizzazioni
Da un lato, quelli che invocano pene sempre più severe, come se l’entità della pena fosse sufficiente dal punto di vista della prevenzione. Dall’altro lato chi sfrutta questa tragedia per piantare ennesime bandierine ideologiche, attingendo sempre e comunque alla retorica murgiana della lotta al patriarcato.
Nessuna delle due vie è quella giusta. E’ bene sottolinearlo. Sono vie semplicistiche, retoriche propagandistiche del tutto inadatte a centrare il problema e, nel caso di specie, del tutto inconferenti.
Non è l’aumento delle pene che serve
Inadeguata è la soluzione dell’aggravamento continuo delle pene. L’effetto deterrenza dell’afflizione carceraria può funzionare solo nel caso di una mente minimamente lucida e razionale. Cioè l’opposto di quel che si verifica in questo genere di crimini. Perchè l’aumento della pena possa essere deterrente sarebbe necessaria una valutazione ex ante sul rapporto fra gesto criminoso e le sue conseguenze. Volendo fare un ipotetico fotogramma mentale, il reo dovrebbe prospettarsi da un lato l’appagamento derivante dal crimine, dall’altro il sacrificio della libertà. E noi ben sappiamo che in delitti come i femminicidi, per quanto premeditati, si predilige l’ora rispetto al domani.
Una valutazione impossibile da fare per un omicida
La mente dell’omicida è occupata integralmente dal proposito omicidiario. Magari un proposito che ha coltivato per tanto tempo, che progressivamente ha invaso le capacità cognitive del reo, e le ha colmate di spirito di vendetta, rabbia, frustrazione, rancore e quant’altro. La pena non è contemplata in questo frame o, in alternativa, è considerata come fisiologica conseguenza dell’agire ma non al punto da interdirne l’intenzione e l’azione. “Adesso uccido, poi si vedrà” sembra sussurrarsi l’assassino nell’atto di infliggere il primo colpo alla vittima. La vendetta viene prima, la libertà è sacrificabile.
Quindi, cercare la chiave della prevenzione nel solo effetto deterrenza è scelta del tutto fuori dalla realtà, asseconda un normale impulso emozionale collettivo di fronte alla barbara morte di una persona innocente, ma non serve a prevenire.
E basta con questo patriarcato
Ma del tutto fuori misura, soprattutto nel caso di specie, è la militanza in servizio permanente contro il patriarcato.
Sostenere che nel 2023 la società italiana sia pervasa inesorabilmente dal c.d. patriarcato farebbe ridere se non ci fosse da piangere. Non siamo negli anni 50. La donna ha conquistato – e vivaddio – delle libertà che solo fino a qualche decennio fa erano inimmaginabili. Certo, esistono ancora delle diseguaglianze che sicuramente vanno combattute, ma pensare che ancora la norma sia il predominio dell’uomo (sic!) è semplicemente idiota. E’ idiota perché un approccio del genere conduce necessariamente all’attacco al maschio in quanto tale. Elimina la responsabilità individuale del reo per annacquarla in una generica responsabilità collettiva di genere. Roba da stati totalitari. Tutti i maschi sono colpevoli a prescindere. Perchè sono portatori sani (fino al trigger di innesco) di aggressività e sopraffazione. Sono colpevoli di fare parte di una categoria che per natura è fisicamente più forte della donna. E’ colpevole perché sopraffattore di default, parassita di una società tutta declinata al maschile che privilegia il testosterone.
Ennesimo attacco al maschile……
Ed ecco che l’unica via è svirilizzare il maschio, renderlo incapace di farsi portatore di una specificità importante nei rapporti di genere. Ecco che riprende l’attacco al maschile che da decenni è vittima di un tiro incrociato di un femminismo tossico che ben lungi dal volere riequilibrare il rapporto tra i sessi, mira semplicemente a sostituire un presunto modello di dominio con un altro. Questo il leitmotiv e il vero obiettivo di fenomeni come Mee Too, o Non Una di Meno”.
…. che con il caso Cecchettin non c’entra nulla
Ma – ed è ancora più grave – se si prende il caso Cecchettin, ben si comprende come il patriarcato non c’entra assolutamente nulla. I due ragazzi erano giovanissimi, vissuti in una cultura completamente emancipata ed emancipatoria, in un’area del paese in cui non si scontano più i retaggi di un modello culturale – questo sì – patriarcale, ormai archiviato.
Insomma, ci troviamo proiettati in una totale, assorbente e alienante modernità.
Una società che si vuole anestetizzata dal dolore
Ed è proprio questa modernità che fa da sfondo alla tragedia. Una modernità che spinge i giovani a isolarsi, a non saper costituire più relazioni basate sulla solidarietà personale, sull’empatia, sulla bilateralità. Individui divenuti monadi isolate, sottoposti a continui stimoli autoreferenziali e solipsistici. Una società in cui non si sa più gestire il NO della vita. Non è più ammesso fallire, in questa società che ci vuole tutti belli e vincenti. Non c’è più uno Jacopo Ortis o un Giovane Werther che sublimano il dolore attraverso l’arte e la bellezza, o un Catullo che nel suo amore per Clodia si strugge ma impara tanto su se stesso tramite quella sofferenza. Al contrario, il dolore deve essere cacciato dalle nostre vite. Non lo vogliamo e se c’è, lo neghiamo, fino all’utilizzo della violenza. Insomma, tutto pur di non affrontarlo. Non lo si sa gestire perché nell’equazione modernista non è contemplato. La società del benessere non conosce la sofferenza. Il consumatore deve essere sempre soddisfatto. Il cliente ha sempre ragione.
Le illusioni moderniste e la dura realtà
Ma la vita è un’altra cosa. Non risponde ai paradigmi modernistici ma al contrario mette di fronte a ciascuno delle prove che possono non essere superate. Mette di fronte a percorsi di insegnamento che passano attraverso il NO, attraverso il fallimento. Un fallimento che non è eterno, ma è un pit stop che costringe a fermarsi, a rimettersi in discussione e a trovare le risorse per vedere i propri limiti e impegnarsi a superarli. Questo significa crescere, questo significa maturare, questo significa diventare uomo. Turetta, e tanti come lui, non sono uomini, sono adolescenti cresciuti solo anagraficamente.
Ma per i cultori della società dei diritti a prescindere, dove tutto diventa legittima pretesa, il limite non è consentito. Siamo al livello di “Unico e la sua proprietà”, una sorta di anarchismo solipsistico in cui l’ego è misura del mondo.
Educare al fallimento
Da questo bisognerebbe ripartire. Perchè i ragazzi (alcuni ragazzi) non sanno accettare il rifiuto e reagiscono con violenza? Non stupisce che il Turetta venisse descritto come un bravo ragazzo. Perchè magari lo era. Finché aveva quello che voleva, era sicuramente un bravo ragazzo. Ma al primo scoglio, al primo ostacolo, al primo rifiuto, ha mostrato tutta la sua fragilità emotiva ricorrendo all’ancestrale impulso della violenza, unico campo in cui poteva sopraffare la vittima. Pensandoci, è la stessa dinamica delle baby gang, la stessa dinamica in generale della criminalità giovanile, la stessa dinamica del ragazzo che spara all’insegnante, coperto dai genitori. I germi sono i medesimi. Una società che non tollera più il limite. Senso del limite che paradossalmente è dato – archetipicamente – dal “maschile” che tuttavia si continua a voler abbattere perché intrinsecamente violento e fascista.
E’ la società sempre più “materna” il vero problema
I nuovi alfieri della lotta al patriarcato, non si rendono conto, invece, che è una società sempre più materna (la madre maligna) che illude nella sua finta capacità di accogliere, ad essere la radice del problema. Una società che come una madre malefica, come una moderna Lilith, tende a perdonare, ad accogliere, a negare il male per non affrontarlo è la causa di generazioni sempre più viziate, in una bolla virtuale che non conosce limiti all’espansione dell’ego, in cui tutto ciò che si vuole è un diritto, in cui ogni ostacolo va rimosso.