Elvira povera donna …è finita! L’ultimo messaggio scritto dalla clinica di Bruxelles da Giacomo Puccini, prima che un complicato intervento nel vano tentativo di salvarlo da un tumore alla gola lo uccidesse per una crisi cardiaca.
Il maestro era arrivato all’institut de la Couronne di Bruxelles, diretto dal prof. Louis Ledoux, il 5 novembre del 1924: era una delle due cliniche in Europa in cui si sperimentava una nuovissima cura al radio contro i tumori. Al grande compositore era stato infatti diagnosticato un papilloma sotto l’epiglottide e quella della capitale belga era ormai l’ultima spiaggia.
Gli ultimi giorni di Puccini sono storia drammatica e terribile, di sofferenze atroci e di speranze crudelmente frustrate: “Mi mandano a Bruxelles. Sono grave. Sono nelle mani dei medici e di Dio”. Così aveva scritto poco prima di partire, e una volta giunto e iniziata la cura, così la descrive lui stesso in una lettera a un amico: “Sono in croce come Gesù. Ho un collare che è una specie di tortura. Radio esterno, per ora, poi spilli di cristallo e buco nel collo per respirare, anch’esso nel collo. Questo buco, con un cannello di gomma per respirare, anch’esso nel collo. Questo buco, con un cannello di gomma e d’argento, non lo so ancora mi fa orrore (…) Però assicurano la guarigione. Io sono un po’ scettico e ho l’animo preparato a tutto”. [1] La prima fase della cura, con il collare di radium, era stata relativamente tollerabile: il maestro doveva portare questo fastidioso collare per alcune ore al giorno ma poteva fare una vita abbastanza normale: poté assistere al Théâtre de la Monnaie alla sua Butterfly (senza poter immaginare che sarebbe stata l’ultima volta), il pubblico lo riconobbe e lo applaudì con entusiasmo. Ricevette numerose visite: oltre al figlio Tonio, che gli era sempre vicino, vennero a trovarlo la sua carissima amica inglese Sybil Seligman e chiamata da lei con una lettera piuttosto dura Fosca, la figlia di primo letto di Elvira che il maestro aveva carissima come se fosse figlia sua.
Lunedì 24 novembre iniziò la seconda parte della cura, molto più terribile e invasiva. Angiolino Magrini, uno degli amici presenti, così scrive alla moglie: “l’operazione fu terribile, uno squarcio di 10 centimetri, tale quale si fa agli agnelli. Hanno poi frugato dentro per isolare il tumore, che è grosso come una noce, e lo hanno circondato con sette aghi di platino, irradiati. E tutto questo martirio per tre ore e quaranta minuti, mentre era quasi sveglio, avendogli fatto solo delle iniezioni di morfina.”[2]
Nonostante questo, con il passare dei giorni iniziava a diffondersi un cauto ottimismo. Puccini non può parlare e comunica scrivendo dei biglietti in cui testimonia la sua terribile sofferenza: l’ultimo è appunto quello diretto alla moglie. Ma il 27 novembre il prof. Ledoux, di solito molto cauto e riservato, se ne esce con il famoso “Puccini en sortirà”, Puccini si salverà. Sembra dunque la tanto attesa notizia “ufficiale”, partono telegrammi di giubilo anche se il maestro appare sempre più debole e assente.
Il giorno dopo purtroppo la crudele smentita: alle 18 la situazione precipita e l’attesa fiduciosa si trasforma in smarrimento: sopraggiunge una crisi cardiaca, i medici tolgono gli aghi dal collo e praticano le cure del caso. Invano: il giorno successivo, dopo una notte da incubo, sopraggiunge pietosa la fine.
Il 29 novembre 1924 se ne andava così Giacomo Puccini, uno dei più grandi musicisti italiani e senz’altro uno dei maggiori in assoluto di ogni tempo. Questo almeno è quello che oggi in larga parte si riconosce, ma il compositore lucchese, ben prima di quelle dei medici, dovette subire le torture dei critici, che proseguirono oltre la sua prematura scomparsa. “Puccini non appartiene ai grandi compositori, ma nei suoi limiti, dei quali egli era peraltro perfettamente consapevole, lavorò onorevolmente e con assoluta padronanza tecnica”. Oggi un simile giudizio lascia esterrefatti, eppure non è nemmeno dei peggiori e si trova in un testo largamente diffuso per molto tempo come manuale di storia del melodramma.[3] Grout riconosce infatti se non altro al maestro un grande istinto teatrale, un orecchio straordinariamente attento alle nuove armonie e ai nuovi colori strumentali … verrebbe da chiedere cos’altro necessiti per essere considerato un grande compositore!
In realtà Puccini, dopo una partenza un po’ incerta con i suoi primi due lavori teatrali Le Villi (1885) il cui esito fu comunque complessivamente buono e lo sfortunato Edgar (1889), ottiene nel 1893 il suo primo trionfo di pubblico e di critica con Manon Lescaut: ben presto, appare chiaro che il vero erede di Giuseppe Verdi è lui. E se almeno fino alla seconda metà del Novecento la sua fortuna critica continua ad essere incerta, l’affetto del pubblico non gli verrà mai meno. Anzi, la sua fama e la sua importanza hanno anche un “contraccolpo” per certi aspetti negativo, quello di far passare in secondo piano altri grandi musicisti di fine ottocento/primo novecento come Pietro Mascagni, Umberto Giordano, Francesco Cilea. Ovviamente Puccini non ha in questo nessuna responsabilità, che è tutta se mai in alcuni pregiudizi e orientamenti particolari di buona parte della critica e della musicologia, che oggi vengono sia pur faticosamente ripensati; ma questa è un ‘altra storia.
Quali sono dunque i punti di forza del teatro pucciniano, che hanno imposto le sue recondite armonie malgrado il venticello calunnioso di certa critica malevola? Se oggi, a un secolo dalla sua dipartita, ricordiamo il compositore lucchese non solo come un protagonista del suo tempo, ma anche come possesso per l’eternità, la ragione forse più profonda è questa: pochi artisti come Puccini hanno saputo coniugare mirabilmente la popolarità con la raffinatezza e la profondità dell’ispirazione. Proprio questo è stato il limite di tanta critica, di confondere popolare con superficiale. Puccini è, tra i protagonisti del dopo Verdi, quello che forse meglio di ogni altro è riuscito a tenere in equilibrio la struttura del suo teatro musicale fra vocalità e strumentalismo. Marco Ranaldi ha parlato di una sorta di sintesi fra Verdi e Wagner, [4]grazie alla capacità incredibile di creare “melodie di impeto, di sensualità fortissima” e l’abilità tutta wagneriana di saper cogliere l’attimo sonoro in se stesso.
Oltre a questo, la caratteristica che ha messo in luce Michele Girardi, uno tra i più validi studiosi pucciniani: “Puccini riteneva l’atmosfera di un’opera una componente fondamentale per la completezza del dramma, che doveva risultare sempre nuovo e in grado di «interessare, sorprendere e commuovere o far ridere bene», per citare la più nota delle sue convinzioni di drammaturgo musicale. [5] Puccini cioè pose sempre grande attenzione alla messa in scena delle sue opere, con una sensibilità per certi aspetti “wagneriana”, dando numerose prove della sua capacità di concepire l’azione e la scena in stretto rapporto con l’espressione musicale: il quartiere latino della Bohème, la chiesa di Sant’Andrea della Valle in Tosca etc. Questo spiega anche la sua proverbiale incontentabilità, destinata a diventare un incubo per i suoi librettisti, il suo tenere saldamente in mano l’egemonia nella creazione dell’opera tendendo il poeta come un subordinato.
Di qui l’impossibilità di una collaborazione con Gabriele D’Annunzio: sia perché Puccini, superstizioso come di regola ogni uomo di teatro, pare ritenesse il Vate un po’ … iettatore, sia soprattutto perché sarebbe stato impossibile piegare D’Annunzio alle ragioni della musica o di qualsiasi altra cosa che non fossero i propri versi. Se ne accorgerà, a sue spese, il povero Pietro Mascagni con la pur mirabile Parisina: bellissima, ma difficilmente rappresentabile. Che fosse la fantastica accoppiata Luigi Illica – Giuseppe Giacosa, il buon Giovacchino Forzano o il duo di Turandot (Giuseppe Adami e Renato Simoni), lavorare con Puccini era sempre un’impresa: “ Vi confesso, mio caro signor Giulio, che di questo continuo rifare, ritoccare, aggiungere correggere tagliare riappiccicare, gonfiare a destra per dimagrire a sinistra, sono stanco morto. Questo benedetto libretto l’ho già rifatto da capo a piedi tre volte e certi pezzi quattro o cinque (…) ho sporcato più carta qui per poche scene, che per nessuno dei miei lavori drammatici” lamenta il povero Giacosa con Giulio Ricordi a proposito di Bohème.
Ma è anche per questo che da Manon in poi Puccini non sbaglia un colpo: dopo il quadro della “vita gaia e terribile” della Bohème (1896) il corrusco drammone di Sardou da cui ricava un altro straordinario capolavoro, Tosca (1900) con quel leitmotive di Scarpia che sembra scolpito nel marmo. Poi nel 1904 compare Madama Butterfly, il primo incontro di Puccini con l’esotismo musicale, in cui il maestro si rivela per molti aspetti già novecentesco, ad esempio nel secondo atto “ nella cerimonia del trucco, desolata per effetto d’armonia e di colore (…) un espressionismo in piena regola, non indegno di paralleli, che sono stati fatti, con Schönberg.”[6] L’opera rappresentata alla Scala il 17 febbraio fu un fiasco totale e clamoroso e sembrò segnare una battuta d’arresto nella carriera del compositore; ma come aveva profetizzato Giovanni Pascoli, la farfallina prese il volo e già il 28 maggio, a Brescia, trionfava in una versione riveduta da due a tre atti. Oggi è uno dei titoli più amati ed eseguiti del grande repertorio. Poi la ricerca di nuove vie, con l’opera ambientata nel nuovo mondo, con l’uso di materiale folclorico americano: La Fanciulla del West, rappresentata a New York nel 1910, liquidata un po’ malignamente come opera-western ( “un’opera equestre straordinariamente attuale per la TV, con uno sceriffo e indiani di professione come quelli di Santa Fé”, chioserà con ingiusto veleno Igor Stravinski). Si tratta invece di uno straordinario esempio di modernità e rinnovamento, con richiami a Claude Debussy e a Richard Strauss. Poi, dopo la bellissima ma a lungo misconosciuta Rondine (1917) la geniale idea del Trittico (1918) – Il Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi – tre opere in un atto senza alcun legame apparente tra loro, fino all’ultimo grande capolavoro, l’incompiuta Turandot rappresentata postuma alla Scala il 25 aprile 1926. Fu diretta da Arturo Toscanini che giunto alla morte di Liù, interruppe la rappresentazione dicendo A questo punto il maestro è morto. Oggi l’opera è di solito eseguita con il finale composto da Franco Alfano sugli ultimi appunti e schizzi di Puccini. Resta il mistero sulla conclusione che avrebbe voluto il grande compositore lucchese: quello che è stato giustamente definito il quarto enigma di Turandot, che nessun Calaf purtroppo saprà risolvere.
[1] I passi delle lettere sono tratti da Silvestro SEVERGNINI, Invito all’ascolto di Puccini, Milano, Mursia, 1984, p. 47.
[2] Ibidem, p. 48
[3] Donald J. GROUT, Breve storia dell’opera, Milano, Rizzoli, 1995, p. 523.
[4] Marco RANALDI, Giacomo Puccini, l’irresistibile suono, Gaeta, Ali ribelli edizioni, 2024.
[5] Michele GIRARDI, “La rappresentazione musicale dell’atmosfera settecentesca nel secondo atto di Manon Lescaut” in Esotismo e colore locale nell’opera di Puccini, a cura di Jurgen Maehder, Pisa, Giardini, p. 65. Per uno studio ampio e articolato di questo autore sul compositore si consiglia Giacomo Puccini. Tra fin de siècle e modernità, Milano, il Saggiatore, 2024.
[6] Alberto CANTU’, L’universo di Puccini da Le Villi a Turandot, Varese, Zecchini, 2008, p. 110.
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