Ma cosa resta oggi della filosofia? Non serve più all’umanità che l’ha sostituita con la scienza e con la tecnica, non serve alla politica e alla società che l’hanno rimpiazzata con pratiche più efficaci d’immagine, consumo e consenso, e non servono più i grandi sistemi e i grandi racconti perché, paradossalmente, il mondo globale rigetta le visioni del mondo e ogni ordine. Il caos/caso è il solo Regnante. Il filosofo è un figurante di contorno che per conquistare un piccolo, labile consenso deve dire che la filosofia è morta, non serve più. Per avere ascolto il filosofo deve attestare la sua inutilità, autocertificare il decesso.
Umberto Galimberti annuncia un’opera che ridisegna il filosofo e il suo cammino. L’unica filosofia possibile, dice, è pratica ed etica. Ma non etica di principi, certezze e fondamenti naturali e soprannaturali, bensì “etica del viandante”. Di questa sua teoria Galimberti ha offerto un succoso aperitivo in un libro-conversazione con Marco Alloni, “Il viandante della filosofia” (Aliberti). Una conversazione disincantata, ricca di spunti e di umanità, sobria e sincera, senza alcuna concessione alla vanità narcisista.
Il suo percorso di pensiero ha tre importanti pietre miliari: Nietzsche, che Galimberti legge come liquidatore della metafisica (ma trascura la potenza metafisica dell’Eterno Ritorno) e profeta dell’Oltreuomo, come Vattimo traduceva il Superuomo. Poi Heidegger, che ritiene un teologo mascherato. E Severino che riconosce come suo maestro, ma non lo segue sulla via degli eterni. Poi c’è Jaspers e la psicanalisi. Si sofferma sui giovani che vivono nell’assoluto presente, hanno perso la capacità di astrazione e usano un lessico impoverito. Verissimo.
Per Galimberti come per quasi tutta la filosofia corrente (e morente) è finita la metafisica, sono tramontati l’occidente, l’umanesimo e il cristianesimo, è inevitabile il nichilismo e il dominio planetario della tecnica.
Davanti a questo disfarsi del pensiero, dei suoi fondamenti e orizzonti, anche Galimberti ripiega sull’etica e sulla pratica. Anzi nota che la filosofia nasce con Socrate come pratica filosofica prima che come teoria. Socrate, pensatore ambulante, ispira la sua etica del viandante (ma il viandante evoca pure l’antisocratico Nietzsche). Finita l’etica dei principi non resta che l’etica del viandante; insicura, provvisoria, mutevole. Non c’è più un ordine dei valori e della natura, c’è solo la provvisorietà e lo sguardo soggettivo e fugace del viandante.
Ma un’etica transitoria e soggettiva non predomina già nel pensiero globale e nella prassi generale? C’è bisogno di una nuova filosofia per ripetere che la verità è sempre caduca, temporanea e relativa? Non è già questo il canone della nostra epoca? Certo, il filosofo ha più dignità e cultura, è consapevole, pensa con intelletto d’amore, ha lo stile del “monaco”, come dice di sé Galimberti. Ma se è dentro quel perimetro, resta dove già siamo; non va oltre, al più nobilita il processo in corso, e ne attesta l’ineluttabilità e pure l’impossibilità di altre vie. Tutto è qui, incluso nell’orizzonte globalitario, sorvegliato dalla tecnica, in balia del nulla. Ogni opzione si gioca dentro questo relativismo etico, in mobilità permanente.
E se invece il compito del pensatore fosse quello di contraddire il corso dell’epoca, vedere il mondo, la vita, il pensiero con altri occhi, sotto altra luce? E se il filosofo non dovesse temere di cimentarsi con la metafisica e con la verità, inaccessibile nella sua pienezza ma non per questo inesistente? Se la verità è un poligono, proviamo a conoscere almeno qualcuno dei suoi lati.
E se il filosofo non dovesse ripartire da zero e da se stesso, come tutti ripetono da tempo, ossia dalla tabula rasa e dal soggetto autarchico; ma tentasse di scalare le vette già raggiunte dal pensiero, dalla pratica, dalla visione, dal mito e ripartire da lì, cercando una sintesi nuova e rigeneratrice? Sarebbe eclettismo, sincretismo, unità trascendente delle tradizioni? Forse, ma che importa la classificazione? Importa il percorso, la sua profondità, come avvalersi dei presupposti, con quale esito.
Sarebbe un cambio di paradigma. Senza la pretesa di dire: il mondo è crollato, me lo rifaccio da me. Ma dicendo, al contrario, con realismo e umiltà: non parto dal nulla ma da ciò che ci precede. Non ho la pretesa di fondare il mondo ex novo con nuove regole cangianti; sono solo un erede che ripensa criticamente quelle eredità nel mondo che verrà. Disposto a riaprire pure il confronto con la fede, che non richiede di sacrificare l’intelletto ma scommette dove l’intelletto tace.
Compito del filosofo, dice Galimberti, è “problematizzare l’ovvio” e generare inquietudine; ma se oggi l’ovvio è proprio la riduzione del pensiero a etica inquieta, proteiforme e soggettiva, senza verità, auto-reggente, non dovrebbe tentare la strada opposta, benché più difficile? Per Galimberti compito della filosofia è descrivere il mondo, non ricercare la verità ma l’efficacia, ovvero “ciò che produce effetti di realtà”.
Ma dov’è la forza, l’originalità della filosofia nel puro descrivere i fenomeni o nel produrre risposte pratiche solo efficaci? E se il compito della filosofia fosse ancora cercare un senso, una connessione e un destino e scommettere su questa ricerca? Cercare, dico, non trovare; è una ricerca, si rischia di tornare a mani vuote. Ma quello è il rischio del filosofo, la sua nobiltà e il suo contributo. Altrimenti è superfluo e superato da altre app più funzionali… Chi cerca davvero il pensiero aurorale non può restare prigioniero del tramonto.
MV, Panorama n. 26
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