Fu di circa 80 morti e di centinaia di feriti il bilancio della strage di Italiani che colpì la spiaggia di Vergarolla, Pola, il 18 agosto 1946.
Un deposito di mine, sito nei pressi della spiaggia ove si svolgeva una gara di nuoto, esplose all’improvviso portando via con sé decine e decine di connazionali, di fatto gli ultimi che ancora risiedevano in terre che il nuovo regime jugoslavo voleva libere dalle comunità nostrane.
La strage non fu, in effetti, una tragica fatalità: ad innescare l’esplosione agenti dell’UDBA (Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti) servizio segreto della Repubblica Socialista di Yugoslavia.
Nel 1946, la comunità Italiana di Pola era di fatto l’unica di nostri connazionali a continuare a vivere in un’Istria che, già nel corso del conflitto, stava mutando gli equilibri etnici. La pulizia etnica titina, culminata con gli eccidi delle Foibe e con l’Esodo, aveva evidenziato la volontà di Tito di rafforzare il suo potere sulla nuova Yugoslavia a scapito delle minoranze, comprese quelle Italiane. Poco importava che la lingua e la cultura italiane fossero radicate nell’Adriatico orientale da secoli e secoli: Dalmazia, Istria, Zara, Pola erano ormai yugoslave.
Pola restava dunque uno degli ultimi ostacoli affinché la sovranità dello stato socialista di Yugoslavia potesse estendersi all’intera penisola dell’Istria. Pola, infatti, si trovava in una posizione geografica e politica “scomoda” per le autorità yugoslave: un anno prima, la divisione delle zone di occupazione fra gli Alleati ed il Maresciallo Tito in A e B aveva incluso la città polesana nella zona “A” sotto controllo britannico.
La comunità italiana di Pola viveva dunque una situazione di moderata serenità, sapendo che l’amministrazione militare era in mani inglesi. Serenità che andò in pezzi con l’esplosione del deposito di mine. Il messaggio era chiaro: l’essere sotto controllo britannico non evitava d’essere esposti alle rivendicazioni titine.
Occorsero decenni affinché la storiografia ricostruisse una verità per anni celata sia dalla Yugoslavia sia da quei settori della politica italiana che, nell’Esodo e nel dramma delle Foibe, avevano sempre visto un implicito attacco alla ruolo della resistenza jugoslava in Italia. Alcuni di questi settori continuano, purtroppo, a cadere nello stesso errore dove quasi 80 anni.
E’ forse questo il motivo per il quale, nel 2024, le uniche parole spese dalle Istituzioni sulla strage siano state quelle del Ministro della Cultura Sangiuliano e della Senatrice Rojc (PD). Fragoroso il silenzio del resto del mondo istituzionale.
Neanche si è ricordata una figura simbolo come Geppino Micheletti, medico polesano fra i primi a prestare instancabile opera di soccorso ai feriti, malgrado nell’esplosione avesse perso quasi tutta la sua famiglia compreso il figlio di 4 anni. Figlio del quale conservava, come unico ricordo, un calzino che, ricordavano le infermiere dell’ospedale di Narni (TR) dove Micheletti lavorò per molti anni, il dottore recava sempre con sé, nel taschino del camicie.
Micheletti fu decorato di Medaglia d’Oro al Merito della Sanità Pubblica proprio per la dedizione e lo spirito di sacrificio mostrati dopo l’attentato.
Eppure oggi neanche un segno, una parola, un’affettuosa attestazione di stima e gratitudine.