È il movimento nato per celebrare la democrazia diretta, ma il suo leader non regge nemmeno quella indiretta.
Giuseppe Conte dopo essere stato per due volte issato a Palazzo Chigi, e poi alla guida dei 5 stelle da Beppe Grillo passando per una votazione plebiscitaria da prendere o lasciare, declina la candidatura offertagli dal Partito democratico per correre alle elezioni suppletive della Camera nel collegio di Roma 1.
“Ringrazio il Pd e Letta per la disponibilità e la lealtà nella proposta”, ha spiegato il capo politico in una conferenza stampa convocata nel pomeriggio. ”Dopo un nuovo supplemento di riflessione ho capito che in questa fase ho ancora molto da fare per il M5s e non mi è possibile dedicarmi ad altro”.
Finisce nel peggiore dei modi un’operazione sulla quale Enrico Letta stava lavorando da giorni. La proposta all’avvocato pugliese è arrivata direttamente dal Nazareno la scorsa settimana.
L’obiettivo era duplice: da un lato rinforzare la pattuglia M5s in vista del voto del Quirinale. Dall’altro blindare la legislatura tirando dentro l’unico leader che è rimasto fuori dal Parlamento. Un castello di carte che è franato nel giro di ventiquattr’ore.
Il campo largo al quale guarda in prospettiva il segretario Dem si è sbriciolato in uno schioccare di dita. Prima la contrarietà di Matteo Renzi, che ha prontamente recapitato la propria indisponibilità a sostenere Conte, annunciando la ricerca di un profilo più riformista.
Profilo che si è materializzato una manciata di ore dopo nella volontà di Carlo Calenda, consegnata all’Huffpost, di voler sfidare il leader pentastellato.
È arrivato buon ultimo il segretario dei Verdi Angelo Bonelli a dire ci sono anche io, e il pasticcio è stato servito fumante.
Conte aveva soppesato attentamente nelle ore scorse la proposta.
Il suo orientamento per il sì ha sbattuto sul fuoco di fila che si è trovato ad affrontare. “Guarda caso si è ritirato quando ha scoperto di non essere l’unico candidato”, ironizza un deputato.
Uno spiraglio era rimasto aperto ancora fino all’ora di pranzo, quando dal suo entourage rispondevano “più no che sì” all’ipotesi della candidatura.
Nel primo pomeriggio la decisione di fronte a una corsa che si prospettava tutt’altro che agevole e la convocazione di una conferenza stampa nella quale annacquare il diniego tra l’infornata di nomine interne del Movimento.
Sono 17 “Comitati”, 85 strapuntini in tutto considerando un coordinatore e altri quattro componenti per comitato, anche loro, ovviamente, sottoposti al voto dei militanti senza possibilità di contendibilità alcuna, l’ennesimo prendere o lasciare.
Sono solo i primi, perché, assicura Conte, “ci sarà spazio per tutti, ci saranno nuovi comitati, e poi anche la scuola di formazione”.
Un tentativo di redistribuzione del potere, almeno apparente, funzionale a cercare di tenere insieme un partito traballante, tenuto insieme solo dall’ottimismo della volontà del capo politico che è sicuro che “saremo la forza politica più compatta sul Quirinale”.
La giornata di oggi si rivela tuttavia un boomerang nell’avvicinamento del centrosinistra al gran gioco del Quirinale.
È Conte, se ce ne fosse bisogno, a mettere una pietra tombale sul campo largo. “Ho visto uscite saccenti, con questi atteggiamenti non ci sono i presupposti per costruire collaborazione così ampia”.
Letta mastica amaro, Conte non ne esce rafforzato, anzi, la coalizione non esiste.
Trovare un nome per il collegio di Roma 1 si trasforma in una rissa, figuriamoci il Colle.
C’è un sospetto che serpeggia tra i 5 stelle e riaffiora in tanti dei conciliaboli di queste ore. Che Conte abbia rifiutato non solo ma anche per non rischiare di blindare la legislatura, per non essere l’ultimo leader cooptato a Palazzo e per tenersi dunque le mani libere per un’avventura elettorale nel 2022 che lui continua a smentire di volere ma che in molti nel suo stesso Movimento pensano che sia il vero obiettivo.
La partita delle suppletive potrebbe giocarsi a questo punto tra Anna Maria Furlan, l’ex segretaria generale della Cisl caldeggiata dai Dem, e Marco Bentivogli, anche lui un passato da sindacalista e oggi vicino a Calenda, con Enrico Gasbarra, già presidente della Provicia di Roma, come nome su cui si potrebbe trovare una sintesi.
A ingarbugliarsi davvero è la partita del Quirinale, almeno a sinistra, dove di fronte a “campo largo” ormai si inizia a inserire il prefisso “ex”, con Conte che controlla sempre meno i suoi e Letta che non trova il bandolo della matassa per ricompattare una coalizione che, ad oggi, semplicemente non esiste.
Di Pietro Salvatori
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