Vedo un bambino di settantatré anni che sta giocando con lo smartphone a candy crash. Non è da meno una bambina di sessantasei anni che si sta facendo i selfie e poi chatta e allega. Due bambini miei coetanei stanno mandandosi video pornocomici e gag dialettali e si divertono da matti. Un canuto settantaduenne mi si presenta come “fan più attivo” della pagina facebook, mi mostra i suoi like e il suo blog come la sua stanza dei giochi. Vecchie comitive dell’età scolare o antichi circuiti parentali si ritrovano dopo anni di silenzio in questa mobile stanza dei giocattoli e delle ricordanze. C’è chi gioca a scaricare canzoni di una volta, chi si diverte con le ricette e con le diete, chi gioca a burraco, chi fa viaggi e visite virtuali.
Non sto parlando di casi patologici e devianze senili. Sto parlando di milioni di utenti in età matura di smartphone, tablet e dispositivi tecnologici affini.
Direi, anzi, che rappresentano oggi la media, l’adulto-tipo odierno. Scopritori di un universo magico, parallelo, che modifica radicalmente la percezione del mondo e la trasferisce nel gioco e nella simulazione.
Cosa sta succedendo? Una rivoluzione inavvertita ma di portata gigantesca. Un ritorno in massa all’infanzia – infantilismo di ritorno come si dice dell’analfabetismo – tramite la tecnologia, quella che gli psicanalisti chiamano regressione puerile. Lo smartphone ha due funzioni palesi e una occulta: le prime due sono l’uso socio-affettivo e l’uso pratico-lavorativo. La terza, non dichiarata ma diffusa più di quanto si possa immaginare, è l’uso ludico, magico, ricreativo. Anzi, per le prime due funzioni bastavano i telefonini classici. La molla vera che induce all’acquisto e quindi alla diffusione virale dell’i-phone è che ti permette di giocare, di divertirti, di entrare nella stanza delle meraviglie, di tornare bambino. Il mezzo è il messaggio, ed è insieme ludopatia e ludoterapia, nel senso che rivela la malattia del gioco ma è anche la cura del male di vivere tramite il gioco.
Certo, poi c’è la tv, il convitato catodico che oltre i flussi informativi ti fa compagnia in casa, ti dà le notizie, lo svago, i film. Ma un mezzo giocoso d’asporto non ce l’avevamo dai tempi dell’infanzia quando uscivamo con le pistole-giocattolo, le bambole, il pallone e lo jojò. Lo smartphone o il tablet è insieme bacchetta magica, caleidoscopio, teatrino, giostra portatile, maschera, album dei disegni e delle figurine, spada e tanti altri giocattoli dell’infanzia pretecnologica, stavo per dire primitiva. La nostra, insomma. È calcio-balilla tascabile, flipper portatile, playstation per adulti, un video-gioco con la realtà.
Lo smartphone compie il miracolo di farci tornare bambini, ci fa entrare in un mondo magico. Ma è anche il regno della chiacchiera, dove si fanno e si distruggono amori ed amicizie. È un’edicola votiva portatile che si frappone tra il soggetto e il mondo. È un’icona vagante, un occhio magico e una sfera di cristallo, una lampada d’Aladino da cui esalano apparizioni, prodigi, testi e icone. Viene maneggiato e venerato come un totem da molti, a partire dalle tribù neo-adolescenziali, gruppi di migranti spaesati e sfaccendati, coppie in amore, infedeli o ingelosite. Lo smartphone è il veicolo che più si avvicina al mito, col suo affine, il tablet; il suo nome segreto è mitoforo, portatore tecnologico del mito. Il suo utente si può definire mitofante. L’i-phone ha le stesse funzioni del mito: conduce nell’altrove, in altri mondi e in altre situazioni, connette a distanza, supera lontananze nel tempo e nello spazio, annoda rapporti, si fa parola, racconto e figura, ferma l’immagine del mondo.
È il mito che si è fatto silice e ologramma; mito artificiale, partorito in fabbrica. Espande l’io nell’etere, ma spegne l’aura del lontano. Torme d’individui vagano col totem in mano, col giocattolo-feticcio. Anche il touch-screen asseconda l’indole infantile di toccare, maneggiare, usare il ditino. Non so quale mutazione antropologica produrrà col passare degli anni, e non facciamo in tempo a tracciare un bilancio che già si apre un altro scenario. D’altra parte lo stesso Steve Jobs, il mago di Apple, quando annunciò dopo la befana del 2007 il primo i-phone, lo presentò come un game, un gioco. Alessandro Baricco nel suo Game sostiene che l’i-phone nasce come rifugio dal Novecento e dalle sue atroci guerre; dalla storia allo storytelling; la storia si fa store. Non so se davvero l’i-phone sia un rifugio dal passato ma so che è l’ultimo rifugio del futuro, del progresso, del cambiamento e delle rivoluzioni, scomparse nella storia e nella politica. E’ l’unico luogo in cui avvengono i i cambiamenti e ci toccano da vicino, sconvolgono i rapporti umani e le relazioni di ogni tipo.
Ma è soprattutto un gigantesco giardino d’infanzia, un caso collettivo di giocosa puericultura. Paradossalmente i ragazzi fanno un uso più adulto di smartphone, smanettano meglio, scaricano le app e conoscono le funzioni; sono gli anziani a capire di meno il suo funzionamento ma a goderlo di più come un gioco, uno scherzo, una magia. Con lo smartphone bambini diventano grandi e i grandi diventano bambini. Hanno occupato facebook, si divertono coi nickname, navigano tra spotify, podcast e coming soon.
Un tempo si narrava della sindrome di Peter Pan, ne parlavano gli psicanalisti, si riferivano ai sessantottini che non volevano diventare padri, attaccati al loro universo giovanile permanente, al rifiuto dell’età adulta e dell’assunzione di responsabilità, al primato dei capricci e dei sogni. Ma nessuno pensava che si potesse arrivare a un fenomeno di massa. Basta una madeleine sul display e torni magicamente all’infanzia. I-proust, il bambino perenne.
MV, Panorama, n.15 2019