Se Conte manda un aereo a prendere anche solo alcuni della Sea Watch o della Sea Eye, allora tanto vale che mandi la flotta a prendere direttamente tutti quelli che vogliono venire per portarli da noi, perché un simile gesto sarebbe visto come un via libera a riprendere quotidianamente gli sbarchi.
Non accogliere i barconi che arrivano dall’Africa, non farli attraccare nei nostri porti, dichiarare sostanzialmente il paese chiuso a tutti coloro che non scappano da una reale emergenza umanitaria e – solo in misura delle nostre possibilità – accogliere. Anche laddove tale esigenza si manifesti e si ravvisi palesemente c’è il criterio necessario di cui tener conto: l’equa ripartizione tra Paesi europei. Non si può chiedere all’Italia di assumersi una responsabilità che altri rifiutano sistematicamente.
Esiste un dovere delle Nazioni di difendere se stesse, di dire che i confini hanno un senso dove vengono rispettati e che tracciano ancora una linea di chiara demarcazione, di chiara distinzione. Si parla tanto di morti di quello che costa un’ipotetica difesa dei confini, ma si dimentica quanto sangue è costato crearli, i confini di un paese libero.
Non tutelando tali confini, si disprezza il sacrificio di chi ha dato la vita perché questi potessero esistere, per un’Italia libera.
Quando si prende una linea come quella di difendere le frontiere, di rifiutare una sostituzione etnica, bisogna portarla avanti. Portarla avanti a metà non servirebbe, essere cedevoli non avrebbe alcuno scopo. Matteo Salvini ha una linea, e la porta fino in fondo.
La linea governativa deve operare una scelta netta: una linea ferma sul no all’attracco ai balconi, oppure una linea indecisa (che equivale a scegliere di consentire l’attracco dei barconi); perché le ONG non aspettano altro che vedere una crepa nel muro eretto dal governo, per far diventare quella che dovrebbe essere un’eccezione alla regola, la regola stessa.
Se prendiamo chi è sulla Sea Watch o sulla Sea Eye, aspettiamoci che ricomincino ad arrivarne ogni giorno.