Qual è il segreto degli avvenimenti che stanno cambiando il mondo, il motore che spinge Putin e Trump, Bolsonaro e Le Pen, Ab e Modi, Orban e Kaczynski, Erdogan e Duterte, la Brexit e l’onda populista e nazionalista europea, fino a Salvini? È l’Identità. Parola antica dal significato nuovo; proviene dalla filosofia e dal principio di identità, risale dalla storia e dalla cultura, designa popoli, indica il documento di riconoscimento personale. Identità, a volte intensificata da un aggettivo: nazionale.
All’Identità dedica un saggio e un titolo secco un intellettuale metà politologo e metà filosofo, metà giapponese e metà americano, il famoso Francis Fukuyama. Sì, quello che trent’anni fa agitò il mondo intellettuale col suo saggio su La fine della storia. Allora prediceva il trionfo dell’ordo liberal-democratico e del modello americano. Lungamente contestato e perfino deriso, Fukuyama si impose nel dibattito mondiale. Così accade ora col suo ultimo libro, in Italia sottotitolato La ricerca della dignità e i nuovi populismi (Utet). Fukuyama non è un pensatore particolarmente acuto, originale e profondo, ma fotografa come pochi lo stato delle cose di oggi, offre una visione globale del presente. Foto panoramica, dal punto di vista delle idee in azione. Fukuyama cerca una terza via oltre la destra nazional-populista e la sinistra del politically correct che ha smesso di rappresentare “la classe operaia bianca” e difende le minoranze e le élite.
Per lui l’identità è un minaccioso animale da addomesticare in senso liberale, democratico, umanitario. Così pensa della nazione che vuol sottrarre al nazionalismo e neutralizzare dentro una cornice di regole e prospettive in linea con la globalizzazione. Insomma è un liberal-democratico, né con Trump né con Obama e ritiene che la ricetta, anche per affrontare i flussi migratori, sia l’assimilazione, con educazione, diritti e doveri. Bell’idea, qualcuno già ci provò, per esempio in Francia, ma il terrorismo e il fondamentalismo da una parte e la crescita del Front National dall’altra (per non dire dei gilet gialli), dimostrano che l’esito non è stato felice. Come non è stato felice il multiculturalismo adottato in Gran Bretagna, e come non è felice l’integrazione negli Usa. Brexit e Trump da una parte e l’onda rivendicazionista di neri, messicani e islamici dall’altra, lo confermano. Fukuyama propone il disarmo dello ius sanguinis e l’adozione dello ius soli per integrare i migranti. Ma che succede se sono loro, per esempio gli islamici i primi a non voler essere “assorbiti”?
Non mancano nelle sue pagine paragoni impropri e cadute nella banalità ma l’insieme regge e offre una chiave di lettura interessante, anche sulle prospettive europee. A volte chiama identità nazionale quella che forse è l’identità imperiale, nel mondo britannico di ieri, in quello russo o americano di oggi e in quello cinese di domani – un ritorno all’Impero Celeste. Riduttiva è la sua ricerca dei padri pensatori dell’identità: Lutero, Kant, Rousseau ed Hegel, a cui aggiunge Herder. E approssimative le sue analisi del rapporto tra religione e nazionalismo. Non è ben chiaro nelle sue pagine il rapporto tra Identità e populismo o sovranismo. Lui sostiene che la politica identitaria sia nata a sinistra ma sia poi cresciuta a destra. Forse è vero che la difesa della sinistra di neri, islamici, rom, donne, gay sia comunque una politica identitaria. I migranti però sono un’identità in via di mutazione. E i transgender nascono piuttosto dal rifiuto dell’identità. Ma poi che succede se una minoranza è incompatibile con l’altra, se per esempio i neri e islamici negano i diritti dei gay, il femminismo e la parità? Come si regolano in questi casi i custodi del politically correct? Fukuyama rinfaccia alla sinistra di arroccarsi nella difesa di gruppi sempre più ristretti ed emarginati. Ma in una prospettiva globale i neri e gli islamici sono tutt’altro che una ristretta minoranza. Semmai diventa improprio il ruolo della minoranza radical occidentale di rappresentare questo vasto mondo che può benissimo rappresentarsi da solo, senza avvocati o interpreti.
Si fa interessante la sua analisi dell’identità quando intuisce che la sua forza risiede in un fattore che la società fondata sull’utile, l’economia e la tecnica non coglie: è il fattore Dignità, individuale e collettiva, il fattore Anima o interiorità, il fattore Riconoscimento o il suo inverso, la Frustrazione che dà luogo al Risentimento. Quel misto di orgoglio e rabbia, per dirla con Oriana Fallaci, che gli antichi chiamavano Thymos e che Fukuyama ribattezza passando da Platone a Hegel come megalotimia, volontà di grandi cose e di riconoscimento. Sotto le classi, oltre le rivendicazioni economiche, al di là delle disparità sociali, cova un’energia segreta che è irriducibile all’economia e al materialismo. Accadde già una volta che la lotta di classe fu superata dalla scoperta delle nazioni, e nacque il fascismo. Oggi non c’è né il comunismo né il fascismo, ma il politically correct e il nazional-populismo sovranista.
Quella risorsa si può chiamare energia spirituale, senso dell’onore; fu il motore delle civiltà, della loro ascesa e dei loro abissi, talvolta degenerò in volontà di potenza e primato aggressivo. È vero, come dice Fukuyama, che il mondo procede verso l’uniformità globale e il suo contrario, la frammentazione. Ma l’insorgenza di quell’energia disconosciuta, negata, scompagina le carte, rimette in discussione gli assetti e riapre la storia. Altro che fine della storia…
MV, Panorama n. 9 2019