Bergamo – C’è solo una immagine, in questa crisi, che non ha bisogno di essere spiegata: le bare di Bergamo. In ogni tempo e in ogni storia, il corpo dei defunti è il segnale di confine, la pietra miliare che separa in ogni società ciò che si può tollerare e ciò che non si può tollerare. I 20 milioni di morti russi della Seconda guerra mondiale pesarono sul piatto di Yalta e segnarono il confine della cortina di ferro. Le bare imbandierate a stelle e strisce piene di cadaveri in uniforme costrinsero l’America a ritirarsi dal Vietnam nel 1975. Le bare bianche e piccole dei bambini a San Giuliano ci fecero capire che quel terremoto era una tragedia senza rimedio.
L’Eco di Bergamo
Oggi le dieci pagine di necrologi dell’Eco di Bergamo e le casse da morto impilate nelle chiese della Lombardia parlano meglio di ogni dato, più di ogni numero. Vanno oltre la suggestione emotiva del tampone, oltre il bollettino del contagio, l’aritmetica degli epidemiologici statistici. Questo funerale a cielo aperto ci dice che all’improvviso sono saltati insieme i presidi di civiltà del secolo Novecento e persino quelli dell’Ottocento.
Taffo
Le pompe funebri da allora sono entrate nelle nostre vite come una civile stazione di transito, un ganglo vitale della burocrazia civile moderna. E persino le battute delle macabre campagne della Taffo (“O state a casa o staremo tutti in cassa”) ci sembravano un viatico possibile. Adesso tutto salta: bare insepolte, allineate, non gestite azzerano la nostra illusione di poter regolamentare il transito. Passerà l’emergenza, passerà la paura, ma questa immagine resterà dentro di noi come una cicatrice profonda.
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