Dici Silvio Berlusconi e pensi il grande imprenditore: dall’edilizia all’editoria, dal sistema televisivo alla carta stampata, dal calcio alla politica, dalla dimensione personale/familiare a quella sociale/pubblica, dalle amicizie alle avventure galanti (vere o presunte), dalla capacità d’improvvisazione alla meticolosità dei piani strategici, dall’abilità comunicativa alle vicende giudiziarie, dai rapporti internazionali a quelli ‘domestici’ con alleati di governo e avversari, dalla ‘prima’ Repubblica – che tecnicamente non è mai divenuta seconda ne’ tantomeno terza o quarta – ai giorni nostri, da Cavaliere del lavoro a Cavaliere nero, etc.
Tutto in lui è stato impresa, nel senso più pieno del termine, attraverso periodi di grandi vittorie e conquiste ma anche momenti bui, alternandosi il successo e la fama con sconfitte e umiliazioni, periodi folgoranti e momenti di totale abbandono.
Potremmo continuare all’infinito, ma è utile aggiungere un’ulteriore serie di definizioni identitarie combinate, per capire davvero l’attualità politica berlusconiana: da leader carismatico e protagonista assoluto a feticcio iconico, prigioniero di se stesso e della propria sconfinata vanità, da capo indiscusso del centrodestra e campione di consenso elettorale (nonché obiettivo di forti dissensi e nemico numero uno dell’establishment) a copia sbiadita, logora e vetusta del conquistatore che fu.
L’essere stato (al netto delle sue evidenti responsabilità politiche e personali) nel mirino di tradimenti e ribaltoni organizzati, di persecuzioni giudiziarie tramutatesi con ritmo incessante in tentativi di rovesciarlo con ogni mezzo, di allontanarlo dal potere che gli italiani in più occasioni avevano democraticamente attribuito allo schieramento da lui guidato, lo ha segnato, nel fisico, nel morale, nel coraggio, nella lucidità, in sintesi nell’essere pronto a combattere.
Dopo il golpe dello spread (ordito – come ormai confermato da più fonti – nel 2011 a livello internazionale, con la complicità di attori politici e istituzionali italiani) e dalla sua drammatica estromissione dal Senato nel 2013 è come se avesse ripercorso la famosa traversata nel deserto 1995-2001. Stavolta la tempra lo ha ricondotto nell’agone politico e, una volta recuperata la candidabilità, è stato rieletto al Parlamento europeo quest’anno.
Cos’è che cambia stavolta? Il suo posizionamento nel sistema politico, il suo approccio: da incendiario, da sedicente rivoluzionario liberale, da liberatore della nazione, da leader internazionale che dava fastidio a tanti, è divenuto pompiere, si è (forse è stato) ammorbidito, si è ammansito di fronte ai poteri forti, ha provato ad incarnare un profilo istituzionale che tuttavia non restituisce un’immagine verosimile.
Nella fase più felice del proprio percorso politico ha commesso la grave leggerezza di far gestire la migliore intuizione (il Popolo della Libertà) a personaggi più attenti ai propri affari che alle reali responsabilità politiche verso la comunità del centrodestra. A Firenze siamo ben informati in merito.
Nel livore dettato dalle separazioni con i vari Casini, Fini, Alfano etc. – rapporti finiti in cui, regolarmente, dall’essere in posizione di forza e dall’aver quasi sempre una buona dose di ragioni a proprio favore è passato all’avere anche torto, mostrando scarsa capacità politica e comunicativa – ha compiuto un errore strategico: avvicinarsi a chi riteneva erroneamente di poter controllare, sbagliando tremendamente valutazione personale e politica. Ci riferiamo a Matteo Renzi, il quale con furbizia e scaltrezza è riuscito per un certo periodo a utilizzare il Cav. come una risorsa, attraendone parzialmente l’elettorato e così contribuendo a dissanguarlo. Un tempo Berlusconi non l’avrebbe permesso, ma già non era più lui.
Il secondo incomprensibile errore – forse ammissibile umanamente, ma la politica ha parametri diversi – è rappresentato, dagli anni 2014-2015 in poi, da un’improvvisa vocazione eccessivamente europeistica, in totale contraddizione con se stesso dopo un ventennio di strenua battaglia alle élite costituite e ai circoli politici comunitari. Il tutto in una fase storica inappropriata, considerata la crescente avversione popolare verso le strutture dirigiste UE e le relative tecnocrazie: una scelta forse più tattica che convinta, dettata da esigenze di tutela personale e di far sbarcare il lunario a un partito in crescente calo come la nuova Forza Italia (vedasi aver ottenuto la presidenza Tajani all’Europarlamento), ma punita dal suo stesso elettorato perché ritenuta antistorica e non credibile.
In questa traiettoria si inseriscono il sorpasso subito dalla Lega di Salvini alle Politiche 2018 (alleato di coalizione ma non effettivo, dato il rinnovato flirt Berlusconi-Renzi, noto a tutti tranne ai diretti interessati), la polemica contro il Governo Lega-5 Stelle dopo averne agevolato la formazione per evidente convenienza di non tornare subito alle urne, il pessimo risultato alle Europee di maggio – nelle quali ancora una volta si era presentato con parole d’ordine ad oggi inefficaci come “europeismo, liberal-democrazia, liberismo e atlantismo”, dimostrando di aver smarrito il fiuto per il giusto posizionamento strategico di un tempo – e l’attuale crisi di governo, in cui appare voler cogliere più l’occasione di fare i conti con la Lega piuttosto che procedere a una scelta di campo trasparente, a fianco del partito che oggi incarna lo spirito di un rinnovato centrodestra e contro le operazioni del Palazzo.
A tutti è noto che Forza Italia ha votato la Van der Leyen – candidata di Francia, Germania e poteri forti tecnofinanziari – presidente della Commissione, insieme a Pd e M5S; parimenti è risaputo che buona parte di Forza Italia (per non dire l’intero partito) è stata sensibilizzata da Matteo Renzi a sostenere, o almeno non ostruire troppo, il tentativo di governo finalizzato a tenere in piedi la Legislatura e a contenere Salvini. A questo si aggiungano due elementi: l’accusa di Berlusconi a Salvini di aver “consegnato il paese a un governo di sinistra”, che appare piuttosto debole e strana quanto a linearità, dopo che lo stesso ex Premier aveva auspicato per un anno la conclusione del Governo Conte; i ripetuti apprezzamenti verso il presidente di FI da parte dell’ex ‘quasi-erede’ Renzi e financo dell’antico avversario Romano Prodi, che adesso lo ha definito statista.
Troppe le tessere del mosaico per non capire che le sferzanti e inattuali polemiche di Berlusconi contro il fronte sovranista mal celino ciò che tutti ormai sanno: quel che resta di Forza Italia (il leader, la corte autoreferenziale, le amazzoni Bernini, Gelmini e Carfagna, oltre alla vera anima rappresentata sul territorio da alcuni eletti ed iscritti) è divenuto elemento sostanzialmente di sistema, di limitata entità ma utile a mantenere una classe dirigente mai sufficientemente rinnovata, nonché a frenare Salvini piuttosto che a sostenerlo nella sua battaglia all’establishment.
Prodi che elogia Berlusconi…più chiaro di tante parole. Viene spontanea la domanda: “cui prodest”? A chi giova questo evidente posizionamento berlusconiano a favore della conservazione del sistema? Chi ne trae beneficio, in Italia e in Europa? Chi e quali interessi ne hanno ricevuto, al contrario, le conseguenze più nefaste?
Per carità di patria – e per la considerazione che chi scrive ha avuto verso il fondatore del centrodestra, in ragione del ruolo da lui coraggiosamente esercitato in una determinata fase politica – lasciamo la risposta ai lettori: a volte è superfluo esplicitare ciò che implicitamente è palese.
Forse sarebbe più romantico e all’altezza del suo straordinario percorso di vita, Presidente Berlusconi, un sereno addio alle armi, rivendicando con fierezza quanto fatto e il contributo dato alla storia politica internazionale, agevolando al tempo stesso il chiarimento e il prosieguo di un’area politica oggi disorientata. Non faccia come quei campioni sportivi, che pur di continuare a stare sulla scena sono disposti a inanellare prestazioni non all’altezza, macchiare carriere prestigiose e così perdere la faccia.
Per tutti – metaforicamente – c’è il tempo della gloria e quello di Sant’Elena, ultimo rifugio di Napoleone; a chi giova prorogare la propria Waterloo, se si è smarrito lo spirito di combattimento e anche l’esercito? A chi giova che un uomo che ha segnato così profondamente la vita politica del paese si renda strumento di coloro che lo hanno sempre avversato e additato come il male assoluto?
Cui prodest?