Il “Grande Circo Brexit” non cessa di regalare sorprese ed emozioni agli attoniti spettatori. Il 31 Ottobre si avvicina inesorabilmente. In quella data è previsto che la Gran Bretagna lasci finalmente l’Unione Europea. L’uomo che adesso va per la maggiore, Boris Johnson, probabile prossimo primo ministro, è notoriamente un fanatico del Leave. Fedele a questa linea politica, Johnson ha dichiarato che farà di tutto per rispettare tale scadenza, anche a costo di andare incontro a una separazione senza accordi, all’ormai celebre no deal. Ipotesi che in fondo al personaggio, trumpianamente smarrito nel sogno di un United Kingdom Great Again, non dispiace affatto. Si sarebbe anzi tentati di sostenere che sia l’opzione preferita da Johnson, dato l’estremismo politico e, prima ancora, la psicologia peculiare del leader tory, da sempre acerrimo nemico di Theresa May, della quale ha finalmente ottenuto le spoglie.
Un’uscita senza accordo, secondo i più, potrebbe essere disastrosa o comunque molto dolorosa e difficile da gestire; al contrario, secondo Johnson e i falchi che lo accompagnano nel suo volo spericolato, il no deal offrirebbe invece al Regno Unito l’opportunità di mostrare i muscoli, riesumando il proverbiale coraggio e la insuperabile tenacia della british people. Insomma, un’uscita a gamba tesa da una sovrastruttura tecnocratica, descritta come liberticida, realizzata mediante una dichiarazione informale di guerra, innescando un conflitto a bassa intensità, a base di dazi, di rappresaglie commerciali, di liti continue e non proprio edificanti tra vicini, come avviene nei condomini più sfortunati. Johnson scorge certamente in tale scenario il prologo ideale di un’epopea grandiosa: la lunga marcia del popolo inglese verso la riconquista della libertà, a dispetto del fuoco di sbarramento di Bruxelles e della guerriglia economico-finanziaria fomentata dal famigerato asse franco-tedesco. È un modo di vedere le cose molto romantico, molto johnsoniano, non privo di una sua aura decadente, un misto tra Byron e D’Annunzio.
Ma nel “Grande Circo Brexit” c’è un altro personaggio, assai meno carismatico, assai meno capace di evocare chimere letterarie. Un personaggio tipicamente novecentesco, ma non alla maniera di Joyce o Scott Fitzgerald. Corbyn, Geremia all’anagrafe, ha finalmente pronunciato un flebile sì a favore del Remain, al punto da sostenere apertamente l’ipotesi di un secondo referendum. Si tratta però di una posizione ambigua, e ciò non sorprende, dato che l’ambiguità è la cifra caratteristica del personaggio. La linea ufficiale, difatti, resta quella di impegnarsi per ottenere una Brexit progressista, che protegga l’occupazione, lasciando la Gran Bretagna nell’unione doganale e nel mercato unico. Tanto rumore per nulla, potrebbe esser tentato di commentare un osservatore smaliziato. Un Paese presente a modo suo nell’Unione Europea, da sempre privilegiato, in forza di una presunta irriducibile identità, per di più libero dai vincoli dell’Euro e dai diktat della BCE, che bisogno aveva di metter su questa tragicommedia? Restare nella UE e pilotare dall’interno il suo dissolvimento pareva un’opzione più sensata, senza bisogno di scomodare il popolo dando vita a un carrozzone poco commendevole.
Tuttavia, la pregressa ambiguità di Corbyn sulla Brexit aveva i suoi motivi e le sue giustificazioni. In primis, anche in questo caso, la psicologia. Geremia, da buon inglese, è intimamente ostile alla UE, e su questo c’è poco da fare. C’era poi un problema politico di difficile soluzione: come fare per tenere insieme l’elettorato labour favorevole al Remain, prevalentemente concentrato nelle aree metropolitane, con l’elettorato labour favorevole al Leave composto per lo più da operai e da “gente semplice “ del Nord? Dilemma insolubile. Da qui il continuo tentennamento, la grande ambiguità di Corbyn, superato a destra, a sinistra, al centro, superato in tutti i modi possibili dai suoi avversari e persino dai suoi compagni di partito nella vicenda Brexit. Basti citare qui, tra i secondi, John McDonnell, cancelliere ombra, e Emily Thornberry, ministro degli esteri ombra, nonché, tra i primi, i liberal-democratici, da sempre a favore del Remain, che non a caso hanno drenato molti voti dall’elettorato labour in occasione delle recenti elezioni europee.
Quello di Corbyn, inoltre, è il dramma caratteristico della socialdemocrazia novecentesca e dei partiti che l’hanno incarnata, tra cui il PD nostrano: il fatto cioè di essere percepiti, oggi, per lo più, come riferimenti politici delle élites liberal metropolitane, per effetto dello scivolamento della sinistra nel liberalismo di sinistra, a seguito del dissolversi delle speranze palingenetiche tipiche del marxismo, come Del Noce aveva a suo tempo previsto.
Una lezione, infine, ci viene trasmessa dalla vicenda britannica: la menzogna o l’esagerazione, in politica, pagano quasi sempre; l’indecisione e il tentennamento, mai.
A Novembre forse assisteremo a una scena epica: Johnson, come un gigante della mitologia greca, impugnando una lunga catena d’oro massiccio, attraverserà l’Atlantico trascinandosi dietro il Regno Unito. Direzione, il New England. A Nord della Normandia non ci sarà più nulla, solo mare sino all’Islanda. Il mondo si accorgerà allora che il Regno Unito ha davvero lasciato l’Europa.