Seguita il tiro alla quaglia, benché la stagione venatoria sia tutt’altro che aperta.
Il problema è sempre Careggi e i suoi professori e la condotta apparentemente disdicevole dei docenti fiorentini di medicina. Le cose, come sempre accade, sono più complesse di quanto appaia dai media mainstream e dalle chiacchiere da bar.
Tescaroli, che chi scrive osservò in azione durante il processo Borsellino-bis a Caltanissetta, anno domini 1998, è un magistrato serio e responsabile, un autentico uomo dello Stato; insomma, una persona per bene. Il problema, ovviamente, non è Luca Tescaroli, o chi per lui; il problema, semmai, è un altro, è una questione annosa, alla quale la nostra cultura giuridica non è in grado di rispondere in maniera soddisfacente.
Medicina, e la sua facoltà, da sempre, sono qualcosa d’altro e di diverso, e ciò vale in tutti gli Atenei d’Italia. Questo perché i docenti di medicina sono allo stesso tempo docenti universitari e dipendenti dell’Azienda Sanitaria Regionale, e quindi hanno ab origine una identità ibrida, sono, per così dire, servi di due padroni.
Ma quello del medico è un bell’essere servo.
Non a caso, infatti, se si è medici, si è tali in tutto il mondo, dalla California alla Cambogia, passando per lo Zimbawe. Siamo in presenza di una delle poche professioni autenticamente universali. Tale constatazione ci pone dinanzi a una considerazione fondamentale. Chi fa il medico, o chi studia per diventarlo, dopo i primi anni di studio teorico, ha bisogno di stare in mezzo ai pazienti, di stare in corsia, di apprendere dall’esperienza; ha bisogno, altrimenti detto, di sentire i lamenti, la puzza dell’urina, di vedere i lenzuoli d’ordinanza, e sopra i lenzuoli e sul materasso, il viso preoccupato e smarrito del malato di turno; che però non è una pratica e un numero, è un essere umano, e come tale si porta dietro tutto il suo genio e il suo mistero. Detto questo, si pone il problema del rapporto tra interprete e norma.
Per quale motivo?
Un professore ordinario di qualsiasi disciplina deve tenere almeno 120 ore di lezione frontale. Ebbene, i medici non lo fanno, o lo fanno solo in parte. Che senso potrebbero avere, del resto, 120 ore di lezione frontale di chirurgia dell’apparato digerente?
Nessuno, evidentemente.
Una materia del genere, per chi arriva a studiarla dopo anni di formazione propedeutica, necessita di qualche rudimento teorico e di molta pratica.
Questo, esattamente, è il problema dei medici.
L’attività didattica di un medico non può essere ragguagliata a quella di un docente di lingua e letteratura greca o a quella di un professore di chimica organica. Il medico ha bisogno della corsia per insegnare per davvero, e nella corsia si porta dietro gli specializzandi, ai quali, in presenza del malato, insegna; il medico, inoltre, non ha “solo” l’accademia, ha anche l’Azienda Sanitaria.
Questo è il problema di Tescaroli e di chi, con lui, è incaricato delle indagini. Perché, in effetti, ogni docente universitario dovrebbe tenere almeno 120 ore di didattica frontale all’anno. Ogni docente ha un registro on line, che è tenuto ad aggiornare regolarmente indicando il giorno e il numero delle ore di didattica svolta. Orbene, i medici, in quanto servi di due padroni e per la peculiarità della disciplina che insegnano, spesso indicano come ore di didattica le ore che trascorrono insieme agli specializzandi in corsia.
Qualcuno, in coscienza, potrebbe dire che in quelle circostanze i “baroni” di medicina non insegnano nulla?
Al contrario: trattasi di didattica a tutto tondo. Salvo che il nostro ordinamento la considera come attività prestata a favore dell’Azienda Sanitaria e non come attività didattica in senso proprio. Ergo, se il medico-docente segna quelle ore nel registro on line considerandole attività didattica, commette un falso.
Il medico-professore di chirurgia dell’apparato digerente, in altre parole, dovrebbe trascorrere 120 ore in aula con gli studenti, inseguendo il sesso degli angeli, e poi, non si quando, lo stesso medico-dipendente-dell’Azienda Sanitaria, dovrebbe favorire l’incontro degli studenti con la pratica, che per un medico resta fondamentale.
Questo non è un problema di Tescaroli, né degli altri degnissimi magistrati che si occupano della vicenda. Questo, come al solito, è un problema di incompatibilità tra norme, troppo generali e comprensive, nel loro desiderio di spiegare tutto, e casi concreti. Casi, che, per la loro dimensione, non sono solo piccole e casuali eccezioni. Le regole, Tescaroli e sodali, debbono applicarle, c’è poco da dire. Ma l’applicazione, qualsiasi applicazione, deve tener conto della fattispecie concreta.
La domanda che dobbiamo porci è la seguente: è ragionevole accusare di falso un docente di medicina che ha considerato attività didattica il tempo speso in corsia insieme agli specializzandi?
La Procura di Firenze sostiene di sì.
Se la Procura ha ragione, tuttavia, appare evidente che l’ordinamento universitario, sul punto, debba essere riformato in toto.
Nel frattempo, dato che spesso dal caos nascono i geni, e considerati i livelli di eccellenza che l’AOUC può vantare, fossi al posto dei magistrati, eviterei interventi a gamba tesa; tenterei di comprendere, di ascoltare, di “mettermi nei panni”. Roba che molti magistrati, e tra questi non figura Tescaroli, non sanno fare.
Come disse Robledo, a un corso di formazione per avvocati, diversi anni fa, l’azione penale è obbligatoria solo sulla carta. Ogni PM, nel suo ufficio, ha decine di pratiche. Non può, umanamente, portarle avanti tutte. Ergo, la scelta della pratica da portare avanti è, in senso proprio, una scelta politica. La vicenda Careggi, oggi, attira lettori, consensi, e like. Tentazione diffusissima tra i magistrati.
Se Tescaroli è a Firenze, ci è lecito sperare.
Se non altro, che la sua azione possa sollecitare una riforma seria e organica del rapporto giuridico che lega i Dipartimenti di Medicina agli Atenei di tutta Italia.
Forse, non assisteremo al tiro alla quaglia.