Ritrovo in soffitta le tracce di un remoto carnevale: vestiti e piume d’indiano per un giovedì grasso di tanti anni fa, e poi abiti da fatina e da soldato di più recenti carnevali. Rivedo il calore di una tenera vita da babbo, piena di premure e disagi; le maschere di una domenica mattina in una piazza di periferia, il tappeto di coriandoli e stelle filanti in un tentativo fittizio di festa per riprodurre in città il calore perduto del paese e per comporre tra estranei il mosaico di solitudini. Rivedo Rudi vestito da soldato col suo faccino di mela delizia, armato fino ai denti di latte; rivedo Federica vestita da principessa indiana con i suoi occhi di infinita lucentezza che chiedono alla vita attenzione e magia. Lui soldatino della fiera innocenza, lei promessa fiabesca di Oriente. Una distanza infinita li separa da quel passato pur prossimo. E noi, i genitori, che li portavamo nella squallida piazza di periferia per strofinarli col prossimo in gremita solitudine, annusandosi reciprocamente sopra un tappeto di gioia artificiale, monotona anche se variopinta; coriandoli versati dopo brevi esercizi di amicizia o di ostilità, tra compiacenti sorrisi delle madri e socievoli idiozie dei padri.
Commuove il ricordo di un’altra vita, per la sua abissale lontananza dal presente, una vita improponibile ormai, che non era bella ma buona, non era gioiosa ma ottusamente santa, racchiusa in quel guscio domestico e famigliare che ripara dalla vita come dalla morte, rendendo tuttavia più lancinanti i loro assalti impietosi. Ma come erano belli i miei bambini, dico da padre, felice di sentirmi come ogni padre. E come ogni padre la dolcezza della memoria si sofferma sulla loro infanzia, le loro facce stupende, i loro modi di dire e di fare, la divina goffagine dei loro primi passi…
Federica che batte la porta di casa gridando “la bambina vole ucire” e Rudi che arriva col triciclo cigolante per chiedere “cosa bona”,e poi i suoi “zirri”, quando si concentrava elettrizzato vibrando le mani come una puerile stregoniera, e i concitati soliloqui di Fede con le gambe per aria e la testa affondata nel divano… E il deterrente per far smettere a lui l’uso del ciuccetto, dicendogli che la notte lo sostituivo col mio alluce, un’infamia tremenda che lo costrinse a smettere. Lei vestita da tirolese che sculettava vanitosa all’infermiere, compiaciuta per la sua attenzione, ignorando l’atroce pugnalata dell’iniezione che l’attendeva…
Minime storie, piccole inezie di vita familiare rimaste però indelebili, così intime, così universali. Così fuggevoli, così eterne. Coriandoli di vita, stelle filanti come il tempo che scorre e si perde per strada.