Cécile Kyenge ha nei giorni scorsi ufficializzato la nascita di un suo movimento politico: si chiama “Afroitalian Power Initiative” e si rivolge ovviamente agli «afro-italiani».
Il progetto dell’europarlamentare del Pd è stato tenuto a battesimo con una due giorni di panel di discussione a Modena.
La ex ministro Cécile Kyenge probabilmente, non si è avveduta della contrarietà della sua creazione con le norme che disciplinano la vita politica italiana, pur tentando di mascherare la discriminazione insita nel suo “movimento”, non qualificandolo come vero e proprio partito. Almeno in questo primo tempo.
A parte la denominazione anglofona, sulla quale si avanzano molti dubbi di legittimità (gli atti ufficiali devono essere redatti in italiano o muniti di traduzione, a parte ove sia previsto il bilinguismo) in generale un “movimento politico” si pone in posizione di subordinazione rispetto al concetto di “partito politico”, per settorialità di intenti ed organizzazione. Un “movimento” non può concorrere ad elezioni né accedere ai benefici economici riservati ai partiti politici.
Ma deve comunque ubbidire alle regole di democraticità e non discriminazione che regolano la vita politica del nostro Paese.
« “Afroitalian Power Initiative è un percorso di rafforzamento economico e politico della Diaspora Africana in Italia e si pone il doppio obiettivo di rafforzare la partecipazione della diaspora alla cooperazione, e di costruire un quadro partecipativo che consenta alla stessa diaspora di affermare la propria cittadinanza in Italia, in Europa» dice Cécile Kyenge.
Analizziamo nello specifico le conseguenze di tali affermazioni.
I partiti politici in Italia non hanno personalità giuridica, non necessitano di riconoscimento e sono assoggettati alla disciplina civilistica delle associazioni non riconosciute.
La Costituzione sancisce all’Art 49 che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” ed all’Art. 51 impone “la parità di accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici”.
Parimenti il D.L. 149/2013 convertito dalla Legge 13/2014 all’Art 3 comma 2 dispone che lo statuto di un partito sia previsto “nell’osservanza dei principi fondamentali di democrazia, di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello Stato di diritto”
Lavori parlamentari di quest’ultima legislatura, sfociati in un progetto di legge (Dossier 398/3), pongono ancor più l’accento su tale visione, con la previsione delle procedure di iscrizione intesi verso un “rafforzamento dei requisiti di democraticità in conformità alla Costituzione ed ai principi fondamentali dell’ordinamento democratico”.
Ma non basta. Il D.L. 149/2013 alla Lettera e) dell’Art. 3 fissa i criteri con i quali è assicurata la presenza delle minoranze negli organi collegiali esecutivi.
Infine, tutta la disciplina delle Associazioni non riconosciute, cui rimanda l’inquadramento giuridico dei Partiti Politici, prevista nel Codice Civile agli articoli 36 e seguenti, fissa i limiti dell’autonomia negoziale nella “contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume”.
E di norme imperative contro la discriminazione geografica, etnica e razziale, per fortuna, nel nostro ordinamento ne esistono, eccome!
C’è da chiedersi se il “movimento” della ex ministro Cécile Kyenge contrasti con tutte queste disposizioni, a maggior ragione se ambisse a divenire un partito politico, e getta dubbi sulla sua creazione quale compagine a componente etnica o razziale ben definita.
Cosa sarebbe successo se fosse stato fondato un movimento partitico a base “ariana”? O di “puri italiani”? Cosa ne deriverebbe in termini di opportunità, ma soprattutto di legittimità giuridica costituzionale? Come saranno tutelati i diritti delle minoranze nell’API?
E ancora: perchè solo gli Africani? E gli Albanesi in Italia? I Romeni in Italia? Il settarismo di certe previsioni è del tutto inopportuno.
Da giurista ma soprattutto da cittadino mi auguro che questa iniziativa, mirata peraltro ad interessi di categoria e non generali, ritorni comunque nell’alveo della previsione della Carta Costituzionale: altrimenti rischia di creare enclavi etniche o politiche chiuse in sé, che vivono separate dal bene comune, in netto contrasto con una reale e serena integrazione degli immigrati stranieri nella società italiana.
Certi progetti, nati con troppa leggerezza, sia forse pure inconsapevolmente, paiono andare nella direzione contraria.