Firenze, è la mia città, da quando son nato. Ne ho sempre portato fiero la targa, con quel pizzico di supponenza che ci contraddistingue. In fondo, di te, ho solo quella: fiorentino non sono, ma quanto orgoglio in quella ‘c’ aspirata.
Come Oriana, all’estero, a chi mi chiede da dove vengo, rispondo ‘son di Firenze‘.
C’era una volta Firenze
La Firenze bottegaia, con l’aria snob verso tutti, perché con la cucina migliore, la moda migliore, lo stile migliore è inutile essere modesti. I capolavori, i migliori, nemmeno li guardiamo più.
C’era una volta il Liceo in Via Cavour, anzi Via Martelli, un muro di Ciao e Sì tutti uguali, tutti color ‘canna di fucile‘. Aspettavano pazienti la nostra voglia dei sedici anni, di riversarci nelle strade all’ultima campanella: le auto passavano, mica c’era Ztl a scipparci il centro, con il loro carico di vita e di libertà.
La A.C. Fiorentina
C’era una volta la Firenze della Fiorentina, quella vera, la A.C.
La coppa UEFA di Roberto Baggio a Perugia, che poi ci tradi’, mangiandosi un gol e andando l’anno dopo alla Juve. Quella Juve del ‘meglio secondi che ladri’, proprio quella lì.
Gliela facemmo scendere la lacrima l’anno dopo: era un sabato di scuola, tutti in aula con le sciarpe viola. E poi, alla quinta ora, tutti allo Stadio con il 17 a battere i gobbi in campo in dodici, con ululati che nemmeno al Colosseo.
Come sei ridotto mio caro ‘Stadio Comunale‘: un morto che si ostinano a voler rianimare, quando vorrebbe solo riposare in pace e lasciare la palla ad un suo pronipote più moderno, più capiente, più fuori città.
Testimone di epoche passate, eretto a forma di D – ma non si dice – con l’arte e l’ardire delle scale elicoidali e la Torre che si meritano di rimanere eterne, ma basta lì. Con pietoso atto di amore ti abbatterei, per non macchiare il ricordo che ho di te, prima che ti stravolgano e stuprino ancora una volta.
Il centro sottratto
Una Firenze da vivere, c’era una volta, da godere, da raggiungere per una pizza, per una cena: il centro era casa nostra.
Come Via Laura, c’era una volta l’Università, libri enormi e la Goliardia. Sempre nel nostro salotto buono.
Gli artigiani in centro erano ad ogni angolo. Un indirizzo per tutto: tutto nel raggio di un chilometro quadrato. Un centro vivo, borghese e speranzoso.
C’era una volta Firenze, un gotto di rosso e un crostino con la poppa. Con il lardo. Con i fegatini o la trippa. Sinceri e popolari come la festa del Grillo e il Marzolino.
C’era una volta la passeggiata di Natale in Via Calzaiuoli, con il vento che ti taglia il viso, e la cioccolata calda alle Giubbe Rosse. Dove nacque il Futurismo che sconvolse il mondo e ancora oggi è più moderno del più moderno contemporaneo. Al Guggenheim e al MoMa, a New York, impera e troneggia: qui quasi ce ne vergogniamo.
C’era quella volta la passeggiata in Via Calzaiuoli: camicia bianca e golf di cotone azzurro. Un assolato martedì di settembre del 2001, l’Undici. Una strana tensione nell’aria. E poi televisori in studio e radio per sentire la fine del mondo. E la rabbia per il futuro che ci stava deflagrando dinanzi agli occhi.
I viali dei Barbalberi
C’erano una volta i grandi viali alberati, con i loro anziani guardiani verdi, a scortarci nei nostri piccoli, grandi spostamenti. Nei nostri piccoli, grandi drammi.
Saggi come nonni, Barbalberi brontoloni e comprensivi. Oggi vi abbattono con ferocia in nome dell’ecologia, e ancora una volta, pazienti, lasciate fare. Scusateci.
Ci son nato sotto i vostri rami.
Ho riso alle vostre ombre. Nelle notti insonni, all’alba fin su al Piazzale.
Ho pianto sotto i vostri rami, di lacrime segrete.
Vi portano via. C’è da fare spazio.
C’erano una volta le generazioni curve sulle spallette dell’Arno fino alle Cascine, ad ogni dannato acquazzone che durasse più di un giorno.
A guardare inesorabile il livello alzarsi fino a sfiorare, riempiendole, le arcate di Ponte Vecchio. Perché cinquant’anni e più non sono bastati a metterti in sicurezza, caro fiume a regime torrentizio. Eppure lo sei sempre stato, non dovrebbe essere una sorpresa.
Ti ho vista deserta, mia cara Firenze. Deserta come non credevo potessi essere mai, deserta con svelte figure che riparavano nei portoni. Pattuglie sfrecciare in vie lunari, mascherine e terrore pandemici come un virus.
L’insostenibilità dell’essere ‘sostenibile’
C’era una volta la mia Cara Firenze: ti amerò sempre, ma non è più aria.
È inquinata, dicono. È insostenibile, dico io.
In fondo non dovrò salutarti, perché lo sto già facendo da anni.
Da anni, sin da ragazzino, ripetevo che eri ‘una meravigliosa città di cui avere nostalgia‘.
Non sapevo, all’epoca, quanto sarebbe divenuto vero. Quanto avevo, inconsciamente, ragione.
Non invecchierò tra le rotaie e i tuoi viali deforestizzati dal napalm ideologico di chi ci vuole fuori da casa nostra. Dal nostro salotto.
Per consegnarti a chi, di Firenze, non ha nemmeno la targa, nemmeno quella.
Porte telematiche e semafori rossi.
Non vedrò Viale dei Mille ridotto ad un viottolo, assediato, senza filari di alberi, da pali e da quel mostro stridente: stridente con il paesaggio e le architetture, stridente con il nostro udito.
Stridente con il buon senso e contro ogni logica.
Non vedrò lo scempio di chi sta realizzando un deserto e si ostina a chiamarlo ‘sostenibilità‘.
Perché io, come molti altri, cari signorotti locali, la vostra ‘sostenibilità’ la trovo inesorabilmente insostenibile.
Leggi anche: https://www.adhocnews.it/luce-verde-liturgia-di-un-lancio-militare/
www.facebook.com/adhocnewsitalia
Seguici su Google News: NEWS.GOOGLE.IT
Commenti 4