CHI DIFENDE IL DIFENSORE?
Il diritto alla difesa è inviolabile recita l’art. 24 della Costituzione. Un assunto breve nella formulazione ma denso di significato che attesta la scelta irrevocabile dei padri costituenti in favore di uno stato di diritto liberale fondato sul primato della libertà dell’individuo rispetto al potere dello Stato.
Quest’ultimo può e deve intervenire a limitare la libertà personale quando ricorrono reati gravi, ma solo in presenza di determinate condizioni e previa una serie di garanzie personali che solo l’assistenza tecnica di un avvocato può garantire all’accusato
Secoli di evoluzione giuridica hanno consacrato questo principio, che è stato nel tempo recepito dalle principali fonti nazionali e internazionali facendo del diritto penale occidentale un modello che dovrebbe essere esteso il più possibile.
Affermare l’inviolabilità del diritto di difesa, tuttavia, non può risolversi nel suo mero aspetto formale che consiste nell’ assicurare la presenza di un legale in ogni stato e grado del processo.
Questa certamente è condizione necessaria ma non è sufficiente per garantire al cittadino che quel diritto sia effettivo e che il trattamento processuale sia equo
Affinché ciò si realizzi, è necessario consentire al difensore ogni attività possibile e immaginabile nei limiti della legge e della continenza, al fine di rappresentare al meglio l’assistito, anche se accusato di gravi crimini (Tutto ciò peraltro è oggetto di precisi doveri deontologici la cui violazione comporterebbe sanzioni di natura disciplinare).
L’Avvocato quindi deve poter dire quello che ritiene opportuno anche se urticante o scomodo, perché il suo compito è proprio quello di instaurare il dubbio nel Giudice rispetto alla ricostruzione dell’accusa.
Date queste premesse di carattere teorico, le espressioni forti utilizzate da Gino Cecchettin, padre della povera Giulia massacrata da Filippo Turetta oggi imputato per omicidio volontario e premeditato, sconcertano e non poco
Cecchettin, infatti, all’indomani della discussione finale (quella che comunemente si chiama arringa difensiva) del legale di Turetta, l’Avv. Caruso, consegna ai social le seguenti parole “La difesa di un imputato è un diritto inviolabile, garantito dalla legge in ogni Stato e grado del procedimento – scrive Cecchettin – Tuttavia, credo che nell’esercitare questo diritto sia importante mantenersi entro un limite che, pur non essendo formalmente codificato, è dettato dal buon senso e dal rispetto umano”.
“Travalicare questo limite – prosegue il papà di Giulia, che ha appena presentato la fondazione in nome della figlia – rischia di aumentare il dolore dei familiari della vittima e suscitare indignazione in chi assiste. Io ieri mi sono sentito nuovamente offeso e la memoria di Giulia umiliata”
Parole gravi che, seppur comprensibili dal punto di vista umano, non possono trovare riconoscimento in alcun modo, perché ciò significherebbe ledere quel principio di inviolabilità del diritto di difesa che lo stesso Cecchettin almeno teoricamente richiama. E, cosa da non poco conto, quelle parole sono completamente sproporzionate rispetto a quanto ha argomentato l’Avv. Caruso in sede processuale.
Il legale, infatti, in sede di discussione finale ha contestato la premeditazione e la crudeltà del Turetta nell’uccidere Giulia Cecchettin. Ha contestato l’aggravante dello stalking sottolineando la debolezza psicologica dell’imputato. Ciò non per sminuire la colpevolezza e l’efferatezza del crimine, ma per offrire una lettura alternativa dei fatti rispetto a quella prospettata dall’Accusa
E lo ha fatto nei limiti della continenza verbale e nel più assoluto rispetto delle prerogative forensi. Non un parola fuori posto, ad eccezione di normalissime iperboli dialettiche. Abilità, persino incentivate in ogni percorso di formazione forense, mediante l’utilizzo sapiente di figure retoriche che servano a dare corpo al discorso e a supportare le proprie argomentazioni.
Si tratta di tecniche che si applicano sin dai tempi di Cicerone e che sono spiegate in ogni manuale di retorica forense, quindi nulla di particolarmente immorale
Quando il legale sostiene che Turetta non è Pablo Escobar (noto trafficante di droga che negli anni 80 aveva fondato un impero sulla morte altrui), intende sottolineare iperbolicamente proprio questo. Che per quanto grave – e lo è – l’omicidio perpetrato dall’imputato, occorre considerare il quadro di insieme compresa la personalità del reo. Non lo dice l’Avv. Caruso, lo prevede l’art. 133 del codice penale.
Questo significa mitigare la gravità del gesto?
Nient’affatto. E ancor meno significa infangare la povera vittima.
Quando ci si domanda se è fondata la tesi accusatoria circa il timore che la vittima poteva avere del Turetta in considerazione di alcune circostanze, non si offende la memoria di Giulia, semplicemente si cerca di circoscrivere o confutare le aggravanti contestate – circostanza che per un imputato può significare la differenza tra ergastolo e trent’anni di carcere. Insomma, si fa il proprio mestiere.
Si mette in pratica quella inviolabilità del diritto di difesa di cui parla la nostra Costituzione
Discutibile la ricostruzione del padre di Caruso? Senza dubbio, come tutte le cose. Per questo motivo infatti esiste un giudice terzo che sarà chiamato a decidere quale delle due versioni – se quella dell’accusa o quella della difesa – sarà maggiormente credibile o suffragata da prove. Nel rispetto della Costituzione e della legge.
Per questo ogni strumentalizzazione fatta dei processi offre all’opinione pubblica un’immagine falsata del diritto penale e contribuisce a fare emergere una visione emozionale dell’accertamento dei fatti e dell’irrogazione delle pene
Una tragedia che ormai viviamo continuamente ma che allontana dalla Giustizia, non garantisce l’imputato e – questo sì – non rende onore alla vittima. Pensare di utilizzare il processo per lanciare dei messaggi politici è quanto di più antidemocratico ci possa essere.
Significa fare politica attraverso le tragedie e questo non può essere ammesso
Da questo punto di vista, un certo attivismo dei familiari di Giulia Cecchettin si presta purtroppo a indecorose strumentalizzazioni da parte di chi vuole trasmettere alcuni messaggi di natura radicale ed estremistica che con il caso di specie non hanno nulla a che fare. Sarebbe dunque auspicabile una certa cautela nelle esternazioni che qualcuno potrebbe utilizzare per scopi poco nobili.
Su questo occorrerebbe anche un atteggiamento diverso da parte dei professionisti dell’informazione, la cui responsabilità nel mutare la concezione di processo penale è stata assai rilevante in questi ultimi trent’anni, “drogando” in senso forcaiolo la percezione della giustizia in questo paese
La mediatizzazione dei processi, il fatto che essi diventino oggetto di dibattito pubblico e mediatico ben prima del processo, l’attenzione morbosa a ogni dettaglio – dalle chat, alle conversazioni ecc. – nuoce a all’accertamento della verità perché crea un background umorale che finisce per influenzare il Giudice da un punto di vista psicologico. Non potrebbe essere altrimenti, visto che il giudice è un essere umano e come tale guarderà la televisione, leggerà i giornali, navigherà su internet ecc. e proverà dei sentimenti conseguenti.
Ma la coartazione della volontà del Giudice e è la negazione della sua terzietà, necessaria per pronunciare una sentenza sgombra da pregiudizi personali o valutazioni morali, bensì fondato esclusivamente sulle risultanze istruttorie. Se questo non avviene, il rischio è quello del ritorno a uno Stato etico e ai Tribunali del Popolo
Una china pericolosa che annulla ogni afflato democratico che deve pervadere il nostro ordinamento anche e soprattutto in casi di reati molto gravi.
È davvero questo quello che vogliamo?
È dunque a questo che vogliamo ridurre il processo penale? A essere un mero traduttore giuridico di sentenza già pronunciate sui media da sedicenti giornalisti o da mediocri opinionisti? Perché se questa è la direzione, potremmo persino abolire il processo e lasciare che giudichino questo o quel conduttore, magari in base a un sondaggio.
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