Quanti sono i parlamentari che siedono oggi a Montecitorio o a Palazzo Madama che hanno contribuito negli ultimi vent’anni a quell’imprudenza contestata da Mario Draghi la scorsa settimana “di non aver diversificato maggiormente le nostre fonti di energia e i nostri fornitori”? Non sono pochi (facciamo gli elenchi?), e qualche forza politica si è distinta anche negli ultimi due-tre anni a contrastare i flussi di gasdotti alternativi, come il Tap, il TransMed, o le estrazioni di gas dall’Adriatico.
Eppure, hanno applaudito tutti. Hanno capito quello che ha detto il premier? O è scattato il riflesso pavloviano, descritto da Ennio Flaiano: “Saltare sul carro del vincitore”. Sperando che la smemoratezza vinca sempre su tutto. Il dubbio – sulla capacità di intendere, o sull’ipocrisia senza limite – era scattato anche durante i 55 applausi che hanno punteggiato il discorso di Sergio Mattarella dopo la sua rielezione. Come fanno i parlamentari che hanno osteggiato – e osteggiano – ogni vera riforma della giustizia a omaggiare con standing ovation degne di una rockstar le parole del Capo dello Stato?
Ipocriti o imbecilli
L’alternativa – ipocriti o imbecilli – non offre una soluzione preferibile. È meglio essere rappresentati da sepolcri imbiancati o da minus habens? Confesso che si tratta di un dilemma non invidiabile. Il tic dell’applauso, che scatta anche senza che sia portatore di un significato – anzi, persino significante il contrario di quello che il plaudente sembra aver sempre apprezzato – finisce per essere un tributo alla società (e alla politica) dello spettacolo. L’applausometro era un vecchio e rudimentale arnese che ha riempito a lungo i discorsi dei commentatori di programmi della radio o della televisione, prima che auditel (e audiradio) introducesse modalità meno spannometriche e meno disposte alla deferenza fantozziana.
L’applauso, in presenza, è un segno del suddito, oltre che del fan. Il tributo all’artista – musicista, attore, sportivo, un po’ artista anche lui – è esagerato nei modi, è l’effetto di un moto dell’anima, di un transfert emotivo. La deferenza del sottoposto è esagerata solo nelle parole, ma non nei modi, nella quantità, non nella qualità. L’applauso ottunde le differenze. A Roma diremmo che si butta tutto in caciara. Ma i cittadini che saranno elettori, dovrebbero preservare la memoria e apprezzare le differenze. La stampa dovrebbe aiutare in questo, ma così non accade.
L’applauso ottuso
A dire il vero l’applauso, ottuso e succube, è un po’ un segno dei tempi, degli ultimi tempi nel nostro Paese sempre più liquido e confuso, nei ruoli oltre che negli obiettivi. È stato più che curioso vedere, alla conferenza stampa di fine anno, un Mario Draghi applaudito dai giornalisti che lo intervistavano. Sarebbe come se Giovanni Floris o Bruno Vespa, Corrado Formigli o Myrta Merlino si spellassero le mani dopo le risposte dei loro intervistati, specie se si tratta dei politici di turno. Non dico che sarebbe materia da deontologia professionale – preferisco la leggerezza costruttiva all’arcigna contestazione – ma una riflessione sul senso di questa deferenza sarebbe dovuta.
Qualcuno, pochi in verità, avevano segnalato questo stile coreano (del nord) che aveva trasformato i “cani da guardia” del potere (gli anglosassoni ci hanno fatto lezioni sulla stampa watchdog) in docili cutrettole. Apparire indipendenti, oltre che esserlo. Come il dovere della moglie di Cesare: non solo essere onesta, ma sembrare onesta.
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fonte: nicolaporro.it