In un periodo di crisi come l’attuale è fisiologico cercare rifugio nel passato, a ragione o torto considerato, nei nostri ricordi, più aureo e felice del vivere presente. Concretizzarlo con una collezione di reperti che costituiscono la prova tangibile della sua esistenza ne è solo la naturale conseguenza.
Oppure può essere un semplice “ritrovamento”: di quella medaglia che vedevamo sempre in mano a nostro nonno, di un giocattolo che ci era caro da bambini, di un libro che abbiamo divorato in una notte insonne di un’altra vita.
L’oggetto riluce, come fosse colorato in una generale dissolvenza di grigi, ci chiama con il suo fascino, cui segue la curiosità di conoscerne la composizione, la storia.
Da lì si può essere contagiati dalla voglia di circondare tale oggetto di suoi simili, o di altri che appartengano alla medesima epoca.
Costituiscono indubbiamente un ossequio a quel senso di malinconica nostalgia cui indulgere nei periodi di crisi come l’attuale, economica ma soprattutto di valori e punti di riferimento.
Amo custodire oggetti antichi, soprattutto se di famiglia.
Per due ordini di motivi: il primo, scontato, è un omaggio ad una sorta di animismo che mi permea fin da quando ero un bimbo.
Penso, da sempre, infatti che un oggetto riluca dei sentimenti di chi lo ha posseduto, della sua storia, delle vicissitudini che nei decenni o secoli ha attraversato.
Il collezionista ama rivivere ed immaginare la vita che quell’oggetto ha attraversato, le piccole e grandi felicità e tragedie cui ha assistito.
Il miracolo comune che ne ha permesso la sua integrità, le cicatrici che magari mostra come medaglie della sua esistenza.
Non è importante cosa si collezioni o raccolga: possono essere piccoli francobolli o fumetti, oppure oggetti militari e giocattoli, il fondamento è il linguaggio che essi usano per parlarci.
Il fruscio di carta ingiallita e così diversa dall’attuale, la magia di un meccanismo senza nemmeno l’ombra di un’addizione elettronica, che cigolando riprende vita, il ticchettio pigro di una vecchia pendola.
La gavetta o l’elmetto che hanno accompagnato uno sconosciuto soldato che si è ribellato alla propria condizione ignota, ed in anelito di protagonismo ha inciso il proprio nome e reparto sul suo “piatto”, muto testimone di accadimenti così vividi.
Un secondo sapore del collezionismo è legato al verbo che ho usato all’inizio: custodisco un oggetto antico, non lo possiedo, non è di mia proprietà, ancorché mi appartenga.
È giunto a me perché me lo hanno tramandato le generazioni, mio nonno perché lo aveva il suo.
O magari una persona sconosciuta che lo ha venduto, ed io ho incontrato nel mio cammino.
E allora davanti ad esso è naturale sentire che non sono che un passaggio per esso, altre mani che lo passeranno ad altre mani.
Un oggetto antico, magari di famiglia, è un tesoro, qualunque sia il suo valore venale.
È passato tra periodi felici, guerre, crisi. Ha visto rivoluzioni culturali, mutamenti di mode e gusti, il progresso ne ha mutato l’uso, con la sua fragilità magari non è più adeguato alla sua funzione, ed assume solo un aspetto estetico.
Sentire una canzone del nostro tempo attraverso le gracchianti valvole di una vecchia radio che al suo tempo trasmetteva i bollettini di guerra, oppure Radio Londra è fenomenale nella sua inadeguatezza. Immaginare l’ansia, le emozioni che chi ascoltava quell’altoparlante confrontata con la frivolezza dei nostri tempi.
In quaranta e passa anni di vita ho già accumulato una mole di oggetti che non era neppure pensabile solo cinquanta anni fa.
Gravano sui solai della mia casa e ne mettono a prova la stabilità, ma alleviano la mia sete di accarezzare la tangibilità della nostra storia, delle nostre radici.
Ne sarò il nuovo custode, conscio che mi sopravviveranno, ed altri li serberanno dopo di me, e ne avvertiranno le scosse di gioia e di vita che hanno saputo regalarmi.