Mascetti: Sono paralitico.
Sassaroli: Non dire paralitico: lo sai che i fattori psicologici contano.
Mascetti: Che dico: paraculo?
Sassaroli: Non si dice più paralitico, si dice paraplegico.
Mascetti: Anche i ciechi ora sono tutti contenti da quando non li chiamano più ciechi ma non vedenti.
Necchi: Giusto. Per esempio, gli impotenti non sono più impotenti, sono non trombanti. Ora te tu saresti un paraplegico non trombante…
(da Amici Miei – Atto II)
In questi ultimi decenni si è andata sempre più sviluppando nel mondo occidentale la tendenza a ingabbiare tutto il dibattito politico e culturale in un linguaggio politicamente corretto. L’espressione correttezza politica (in inglese political correctness) designa un orientamento ideologico e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto formale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect).
L’opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona nei confronti di categorie considerate come discriminate.
L’uso dell’espressione nell’accezione corrente viene ricondotto a un movimento politico della sinistra statunitense attivo negli anni trenta per il riconoscimento delle minoranze etniche, di genere, religiose, politiche, e alla giustizia sociale, anche con un uso più rispettoso del linguaggio.
Facciamo un esempio pratico: gli storpi sono diventati prima minorati, poi handicappati, poi portatori di handicap, poi disabili, diversamente abili ed infine persone con disabilità. Questo, fino a quando anche quest’ultimo termine non passerà nel limbo del politicamente scorretto per essere sostituito da qualche altro eufemismo.
Politicamente corretto nella retorica gender
Il politicamente corretto è estremamente importante per quel che riguarda la retorica gender. Secondo ques’ultima infatti, quando ci si riferisce al passato di una persona transgender prima del cambio di sesso, bisogna comunque usare il nome corrente post-transizione, piuttosto che il nome con cui è nata quella persona. Questa regola viene estesa anche agli individui che ad un certo momento dichiarano di identificarsi in un certo genere, senza avere ancora cambiato genere legalmente. La confusione è ancora maggiore, visto che secondo i più ferventi attivisti il numero dei generi esistenti supera i 100.
Quindi, per capirci bene, se un tizio qualsiasi che si chiama, ad esempio, Guido, si sveglia domattina e decide che è una donna di nome Loretta io lo devo chiamare Loretta. Se dopodomani si sveglia e decide che è per 9/16 donna, per 18/128 agender e per 44/8 neutrois e vuole per questo essere chiamato Gwayjorwlpt, io devo chiamarlo Gwayjorwlpt. Sarà, ma io sono all’antica, riconosco solo 2 generi e tutto questo mi sembra una pagliacciata.
Il politicamente corretto nella polemica anti-razzista
Dulcis in fundo, parliamo del politicamente corretto in relazione alla razza. Lasciando stare tutta la polemica relativa ai nomi da attribuire ai vari gruppi etnici, passiamo a parlare direttamente dell’ultimo aborto della correttezza politica, l’afrocentrismo. Si tratta di un approccio allo studio della storia del mondo che si concentra sulle vicende delle persone di recente discendenza africana. È per certi versi una risposta agli atteggiamenti globali (eurocentrici) nei confronti degli africani e dei loro contributi storici; cerca di correggere ciò che vede come errori e idee perpetuati dalle basi filosofiche razziste delle discipline accademiche occidentali sviluppate durante e dopo il primo Rinascimento europeo. Il fine è consentire resoconti più accurati dei contributi africani alla storia del mondo.
Falsificazioni afrocentriche
In teoria non ci sarebbe nulla di male, se non fosse per il fatto che per supplire alla mancanza di fatti storici gli afrocentristi se li inventano di sana pianta. Potrei fare molti esempi, ma mi limiterò a quei due che ritengo più eclatanti:
- secondo gli afrocentristi gli olmechi, la prima civiltà dell’America Centrale, da cui discesero tutte le altre, erano africani. L’unica prova che possono addurre in proposito sono alcune teste di pietra dai tratti somatici vagamente africanizzanti. I test genetici eseguiti sui discendenti degli olmechi non hanno evidenziato la benché minima traccia di DNA africano. I primi africani a giungere in America furono gli schiavi portati dal Golfo di Guinea nel XVI secolo;
- Gesù Cristo era africano. Ora, tralasciando il fatto che l’esistenza di Cristo non è stata storicamente provata al 100%, se veramente è esistito Gesù era ebreo. Ovvero appartenente ad un’etnia di ceppo medio-orientale. I primi africani a giungere in quello che oggi è lo stato di Israele sono stati i Falasha etiopi all’inizio degli anni ’80 del ‘900.
Queste falsificazioni storiche trasmigrano molto facilmente nel cinema. I film storici sono nel migliore dei casi poco accurati nelle loro ricostruzioni. L’afrocentrismo riesce anche a riempirli di anacronismi e di sfacciate menzogne. L’ultimo esempio in ordine di tempo è il dramma televisivo attualmente in produzione in Inghilterra sugli ultimi giorni della vita di Anna Bolena, seconda moglie del re Enrico VIII. La parte della protagonista è affidata a Jodie Turner-Smith, un’attrice afroamericana. Non ho nulla contro Jodie, ma Anna Bolena era bianca.
Conclusioni
Potrei continuare a scrivere per decine di pagine sul politicamente corretto. Potrei citare centinaia di ulteriori esempi, uno più assurdo dell’altro, ma penso di aver reso l’idea.
Qual è la vera ragione di questo spreco di tempo e di energie? Perché, ricordiamoci, il fatto di chiamare una persona sulla sedia a rotelle persona con disabilità invece di handicappato non fa assolutamente nulla per risolvere i suoi problemi e/o per dargli una migliore qualità di vita. Il motivo è abbastanza semplice, direi addirittura lapalissiano: la battaglia semantica serve a distrarre la gente dai problemi veri. Le televisioni, i giornali, numerosissimi siti web, invece di dedicarsi a cose serie ci riempiono la testa di rumore inutile. Il fin è far sì che non protestiamo e non lottiamo per ottenere una vita migliore, con più diritti e più tutele per il cittadino comune. Si tratta, in buona sostanza, della versione riveduta e corretta del vecchio panem et circenses. Riveduta perché ovviamente non sarebbe politicamente corretto vedere due tipi che si scannano a vicenda.
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