Giuseppe Conte è contento anche se Trump l’ha fregato sui dazi.
Conte non deve avere capito ciò che bolliva in pentola, quando l’ altro giorno ha discusso col presidente americano, al vertice Nato di Londra. Oppure lo ha capito, ma ha preferito raccontare una storia del tutto diversa. Fatto sta che il premier italiano sembrava grondare ottimismo, al termine di quella chiacchierata a due. «Di dazi non abbiamo parlato, quindi non me ne aspetto», aveva detto fiducioso ai giornalisti.
Stessa risposta sulla questione della nuova tecnologia per reti cellulari, il 5G, alla quale gli Stati Uniti attribuiscono un’ importanza decisiva per la sicurezza dell’ Alleanza atlantica, al punto da non volere che i loro alleati aprano le porte ad aziende cinesi come Huawei. «Non ne abbiamo parlato», era stata la replica di Conte, anche in questo caso. E Trump, pur smentendolo sul 5G («Ne ho parlato all’ Italia e sembra che non procederanno»), aveva avuto ancora una volta parole buone per Conte, definendolo «un grande amico che sta facendo un fantastico lavoro».
Apprezzamento pubblico che però non corrisponde a ciò che filtra adesso dalla Casa Bianca: la rappresaglia nei confronti delle merci italiane è pronta. La “web tax”, in realtà, è parte del nostro ordinamento dai tempi della Finanziaria del 2018, nella quale era prevista una «imposta sulle transazioni digitali» pari al 3% dei ricavi. Ma la sua introduzione è sempre slittata, perché non sono mai stati fatti i decreti che dovevano attuarla. Ora la norma è stata riscritta e appare nella legge di bilancio, stavolta in una formulazione “pronta all’ uso”, che non necessita di provvedimenti ulteriori. «La faremo entrare in vigore il primo gennaio», ha assicurato il ministro dell’ Economia, Roberto Gualtieri.
L’ aliquota è sempre quella del 3% e colpirà le imprese che offrono ad altre aziende servizi digitali, come la vendita di pubblicità online, e hanno un giro d’ affari mondiale superiore ai 750 milioni di euro. Regole studiate apposta per le multinazionali che Trump vuole difendere. E che nel 2020 dovrebbero rendere al fisco italiano 708 milioni di euro, da incassare entro il 16 marzo.
Sempre ammesso, a questo punto, che la cosa si faccia davvero. Perché le minacce di “The Donald” spaventano e dovrebbero indurre Conte e Gualtieri quantomeno a un “supplemento di riflessione”: ci conviene di più tirare dritti e pagarne le conseguenze o sederci al tavolo con Washington per trovare un’ intesa, sapendo che il presidente americano è un osso durissimo nelle trattative? E se davvero congeliamo il balzello, dove troviamo i 708 milioni che mancano all’ appello?
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