Culonavirus – «Un’Italia fuori dall’euro, visto il nostro apparato industriale, poteva fare paura a molti, incluse Francia e Germania che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in surplus nei confronti di tutti i Paesi, tranne la Russia da cui compra l’energia. Era un disegno razionale, serviva l’ Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole. In cambio di questo vantaggio sull’export la Germania avrebbe dovuto pensare al bene della zona euro nel suo complesso». Ma non lo ha fatto.
Queste ultime cinque parole sono nostre. Le ottantotto che le precedono no. Ma dell’ex ministro Vincenzo Visco, in un’intervista del 2012. Ancora più che attuali. Tutti oggi, Germania compresa, si preoccupano delle conseguenze economiche dovute alla diffusione del coronavirus, visto che in Italia le stime sulla decrescita del Pil sono già quantificate all’interno di una forbice che va dal -1% al -3% a trimestre da oggi fino a giugno. Ma alla base di tutto vi è un grosso punto interrogativo.
DIFETTI STRUTTURALI
La Germania è un problema per l’intera eurozona. E quindi per il mondo intero.
E questo non tanto perché il suo sistema bancario non goda di buona salute. Cento euro investiti nelle grosse banche quotate nel 1989 dopo 30 anni valgono grosso modo 80. O per la caduta degli ordinativi industriali, che a febbraio 2020 sono arrivati a quasi un -9% annuo. Mai così male dal settembre 2009.
O per le pesanti ricadute sull’export che Berlino sarà costretta a sopportare con l’esplosione del Covid-19. Le principali corporation teutoniche (da Bayer a Volkswagen; da Adidas a Bmw) esportano infatti in Cina fette rilevanti del loro fatturato (dal 15% al 35%). Mentre Pechino registra un crollo delle immatricolazioni superiori al 90% rispetto a un anno fa. No, non sono queste nubi all’orizzonte a preoccupare la Germania quanto i suoi successi. Tanto reali quanto insostenibili.
Con i suoi quasi 270 miliardi di dollari di avanzo nelle partite correnti stimati dal Fmi per il 2019, Berlino supererà di quasi due volte quello della Cina previsto a poco meno di 150 miliardi. Con la non trascurabile differenza che in Germania vi sono poco più di 80 milioni di anime rispetto ai quasi 1,4 miliardi della Cina.
Magia dell’euro. Un marco sottovalutato condividendo la Germania la stessa moneta con Paesi intrinsecamente più deboli (Grecia, Portogallo, Spagna ecc) che ne abbassano il valore. Quello che l’economista Marcello Minenna definisce «un formidabile sussidio implicito alla manifattura tedesca». Dal momento che «senza l’euro il marco sarebbe più forte di un buon 10%-20% e il suo export meno conveniente».
E i numeri non riescono certo a dargli torto visto che dal 1991 al 1999 Berlino ha totalizzato un avanzo commerciale di 66 miliardi (contro i nostri 235), mentre dal 2000 al 2019 questa cifra cumulata è esplosa all’astronomico importo di 3.300 miliardi contro i nostri 420.
E la Germania continua a essere un grosso problema pure per Frau Angela Merkel, reduce da continue batoste elettorali nelle varie elezioni regionali nei singoli Länder.
La domanda che vale la pena porsi è perché la cancelliera continui a essere punita dal proprio elettorato nonostante gli indubbi vantaggi assicurati alla Germania dall’appartenenza all’eurozona. Una sconfitta elettorale dietro l’ altra, comunque tali da aver da tempo costretto la Merkel ad annunciare il proprio addio alla guida del suo partito, la Cdu.
CONSUMI A PICCO
I numeri nella loro crudeltà una risposta la danno sempre. E osservando le fredde statistiche della Commissione Ue si scopre che i consumi delle famiglie nel 2001 ammontavano al 57% del Pil, contro l’attuale 53%.
Uno sviluppo economico, quello di Berlino, costruito su una patologica centralità dell’ export a dispetto della più importante componente dei consumi interni. Il confronto con gli Stati Uniti è esemplare. Un Paese dove infatti i consumi delle famiglie arrivano a sfiorare il 70% del Pil. Un Paese, gli Usa, che di fatto è il cliente del mondo. Il disavanzo delle partite correnti arriva a quasi 540 miliardi. Una cifra che gli americani possono ma non vogliono più permettersi. Pur essendo la bilancia dei pagamenti così abnormemente e stabilmente in rosso, gli Usa hanno l’ unico indubbio privilegio che nessun altro Stato al mondo ha.
Creano i dollari con cui onorare gli acquisti senza timore di morire per l’incapacità di rimborsare il debito contratto con l’ import, visto che è denominato nella loro valuta. E comunque Donald Trump non vuol più permettersi questo lusso perché il sistematico acquisto delle merci all’estero, che spesso si nasconde dietro la delocalizzazione, alla fine sfocia in deindustrializzazione. Anche qui il coronavirus non fa che dargli una mano.
Tutt’altra strada quella della Germania, fornitore del mondo anziché cliente. La deflazione salariale ottenuta con le varie riforme Hartz ha reso le imprese tedesche più competitive all’estero, scaricandone però il prezzo sul tenore di vita delle famiglie, che quindi non stanno sicuramente meglio rispetto al 2001.
A condire il tutto, le solite bugie profuse dai media tedeschi che continuano a dipingere l’Europa in generale – e l’Italia in particolare – come realtà sussidiate e sostenute dal contribuente tedesco, quando invece l’Italia dalla Germania non ha mai ricevuto un euro. Anzi, avendo noi versato un contributo capestro di oltre 60 miliardi ai vari fondi salva Stati, serviti a finanziare soprattutto la Grecia affinché rimborsasse le incaute banche francesi e tedesche che le avevano fatto fin troppo credito.
Alimentare il risentimento anti italiano sembra comunque essere una strategia perdente, dal momento che a guadagnare voti è sempre stata la destra di Afd, mentre la Merkel si trova di fatto intrappolata e costretta a dire no di fronte a qualsiasi progetto di riforma dell’eurozona, pur di non apparire troppo accondiscendente nei confronti di un elettorato sempre più in fuga.
Con ciò, condannando l’eurozona alla sua inesorabile implosione, con sommo dispiacere della Confindustria tedesca, che sul marco svalutato travestito da euro ha di fatto costruito il suo successo, senza però condividerlo con i consumatori. Che sono un po’ di più, e prima e poi, votando, lo fanno sapere.
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Fabio Dragoni per “la Verità”
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