Mentre le borse mondiali sono in perdita per la quinta settimana di fila e l’economia europea – come osservano alcuni traders – è entrata nella fase discendente del ciclo, che porta alla recessione (come se ci fosse mai stata una effettiva ripresa…), uno spettro si aggira per il Continente. Di cui nessuno parla, per calcolo, pusillanimità o mera ignoranza: dall’inizio dell’anno, le azioni Deutsche Bank hanno perso oltre il 60% del loro valore, in quello che appare un crollo inarrestabile per un istituto finanziario globale, che solo nel 2017 ha visto le perdite nel settore dei derivati salire a 124,1 miliardi di euro, con un contestuale aumento del valore nozionale totale dei derivati alla cifra stellare di 48,3 trilioni di euro.
Il motivo? Molto semplice, come ha candidamente ammesso David Folkerts-Landau, economista capo del colosso francofortese: a partire dagli anni Novanta il management ha fatto di tutto per trasformare la banca in una specie di hedge fund speculativo di tipo anglosassone, con un solo obiettivo, perseguito ossessivamente: ottenere un rendimento del 25% sul capitale, accettando di correre enormi rischi finanziari ed etici.
Ebbene, un eventuale tracollo di DB, sulla falsariga di Lehmam Brothers, produrrebbe effetti sistemici di portata incalcolabile sul sistema finanziario internazionale e getterebbe quasi certamente l’ultima palata di terra sulla fossa dell’Unione Europea, che i tecnocrati di Bruxelles, in preda a un conclamato delirio ordoliberista di matrice germanica, stanno da tempo scavando con gran diligenza. Ma di DB, chissà perché, non si è mai parlato troppo, neppure dopo la sonora bocciatura tributatale dai controllori statunitensi. Il problema, semmai, sono le banche italiane, così povere, così scalcinate, così tipicamente inaffidabili…Il problema è l’attuale manovra finanziaria, è il deficit al 2,6 %, sono i sovranisti-populisti irresponsabili, sfasciacarrozze incapaci di comprendere la grande autorevolezza del duo Moscovici-Oettinger.
Già, l’ordoliberalismo: da tempo ormai i più autorevoli organi di stampa anglosassoni hanno stigmatizzato l’insensatezza della dottrina economica imposta all’Unione via Berlino, mentre economisti di fama, da Adam Tooze a Thomas Piketty vanno ripetendo ossessivamente lo stesso mantra: se non vi saranno profonde riforme che implichino trasferimenti di rischio, la creazione di una banca centrale che sia davvero tale, la predisposizione di meccanismi istituzionali stabili per affrontare le congiunture negative, etc., l’Europa continuerà ad essere bloccata in una crisi permanente, preludio alla sua inevitabile dissoluzione, che si spera almeno non sanguinaria. Ma, in tutto questo, il problema è solo l’Italia. Così almeno in molti si affannano a farci credere.
Eppure, qualcosa si muove, benché non sia facile trovarne traccia nei media nostrani. Mentre la stampa tedesca (col solito Spiegel in testa) si lancia in titoli che tradiscono rabbia e paura insieme, non mancano fortunatamente prese di posizione diverse, che invitano a pensare. Così, ad esempio, Bruno Bertez, uno dei più brillanti economisti transalpini, se ne esce con un’analisi illuminante: «Contro l’Italia, Bruxelles applica la politica del tanto peggio, e la Francia si spara sul piede». Bertez ci va giù duro, nella migliore tradizione degli intellos. La Germania conosce solo un principio: storcere il braccio a chi recalcitra alla sua Legge e alle sue Regole. La Germania è incapace di dar vita a una politica ragionevole di ricerca dell’optimun europeo: è un fatto viscerale, culturale, impossibile da scalfire. Tutti sanno che, da sempe, nei Paesi dominati dalla Germania vi sono stati dei collaborazionisti, incaricati di trasmettere gli ordini tedeschi col compito di assicurarne a qualunque prezzo l’esecuzione. Senonché, l’Italia non è la Grecia, il popolo italiano si è abituato all’idea del braccio di ferro con la Germania, mentre la coalizione al potere è legittima e gode del sostegno degli strati popolari e di ampi settori della borghesia. Insomma, un bel grattacapo.
Non meno interessanti sono le parole che Bertez dedica al proprio Paese. I politici al potere in Francia, nella scia del sinistro Moscovici, si sbagliano clamorosamente. Per tre ragioni essenziali: 1) la Francia sarebbe la prima vittima in caso di tracollo dell’economia italiana, perché è la più esposta al rischio bancario e finanziario verso l’Italia; 2) la Francia è nella stessa situazione dell’Italia: non riesce a ridurre il suo debito, non risale la china come testimoniano la sua disoccupazione e i suoi deficit esteri. Insomma, la Francia è parzialmente un paese del Sud e geopoliticamente dovrebbe sostenere con discrezione le posizioni italiane dinanzi alle pretese di Berlino; 3) La Francia, come l’Italia, è in quasi dislocazione politica: Macron non può dare soddisfazione ai Tedeschi, pena l’aggravarsi della frattura sociale e l’ulteriore crescita dei populisti. In conclusione, Macron ha commesso un errore fatale giocando tutta la sua campagna elettorale sulla convergenza con Angela Merkel. Siamo di fronte a uno scenario sconfortante, a un conflitto causato da miopia, biechi egoismi e gelosie da bottegai. È un braccio di ferro da cui usciranno tutti perdenti.
Da qui la domanda finale, che Bertez rivolge ai lettori, e che gli attuali dirigenti europei dovrebbero pensare rivolta ai posteri: «Vale la pena, per uno scarto dello 0,4% sul deficit italiano, ostinarsi a difendere dei principi che rovinano la fiducia, minano il consenso e rallentano le economie non di decimi di punto, ma di punti interi?». Chi vivrà, vedrà. Con gli euro ancora in tasca o meno.