Dopo l’anno dantesco, resta rimosso o appena sfiorato un tema che pure ha avuto un grande peso nella storia civile e letteraria del nostro Paese: la forte presenza di Dante nel Novecento politico italiano. Sul tema ho partecipato a due eventi: un catalogo-mostra su Dante a cui ho suggerito il titolo mussoliniano Il più italiano dei poeti, il più poeta degli italiani (ed. Minerva); e un convegno sul sommo poeta nella storia politica del ‘900 a cura della Fondazione Spirito-De Felice, in cui ho parlato de La vision de l’Alighieri, famoso verso di Giovinezza nell’edizione del 1925 di Salvator Gotta.
La fortuna del sommo poeta e la sua riscoperta già dalla fine del Settecento e poi in tutto l’Ottocento, sono inseparabilmente legate al suo ruolo di scrittore civile, anzi politico, profeta dell’Italia futura. Sull’amor patrio di Dante nasce un interesse storico, civile e politico-letterario che precorre, percorre e permane nel Risorgimento e oltre. Il passaggio tra la lettura risorgimentale di Dante e l’Italia del Novecento avverrà soprattutto grazie alla Società Dante Alighieri; voluta nel 1889 da Giacomo Venezian, Giosuè Carducci, Ruggiero Bonghi e altri scrittori; la Dante si schiererà decisamente con gli interventisti. Il ruolo di Dante come precursore dell’Italia unita è colto da Carducci e poi da Alfredo Oriani.
Carducci
È proprio a Carducci che il 4 novembre del 1918 Mussolini si riferisce sul Popolo d’Italia quando nel giorno della Vittoria celebra la statua a Trento e cita Carducci: “E par che aspetti a Trento”. Curiosamente Mussolini, nel 1922, in polemica con Piero Pancrazi, definirà la Divina Commedia “il poema della guerra civile”, notando che la grande fioritura spirituale si nutre del clima di guerra civile. I futuristi si scagliano contro i dantisti ma non contro Dante, criticando “il verminaio di glossatori”(Marinetti).
Ai versi di Dante dedicati al Carnaro si richiamò d’Annunzio nella sua impresa fiumana; il Vate evoca un “Dante adriatico” e poi nel 1921 consacra la tomba dantesca a Ravenna come una specie di Altare della patria, inviando tre aerei con tre sacchi di iuta pieni di alloro per celebrare il poeta. L’apoteosi dantesca avverrà nel 1921 nel sesto centenario della morte dell’Alighieri: prevalse la lettura nazional-risorgimentale. Ma nello stesso anno Benedetto Croce pubblicò La poesia di Dante in cui la grandezza del Poeta veniva scissa dal significato politico, filosofico e teologico della sua opera.
Lettura opposta a quella di Giovanni Gentile che nel 1918, in un discorso che poi diventerà un saggio, la Profezia di Dante (con lo stesso titolo un secolo prima, nel 1819, aveva scritto Byron); aveva al contrario visto Dante come il precursore della linea italiana che va dall’Umanesimo al Rinascimento. Poi al Risorgimento e infine all’Italia nuova dell’Interventismo e dello stesso Gentile. Il filosofo tornerà più volte su Dante, anche da Ministro della Pubblica Istruzione e sottolineerà lo spirito religioso di Alighieri “libero dalla Chiesa”: Dante è cristiano, cattolico ma anticlericale; e Gentile si rispecchia in questa posizione.
Nel carcere, Antonio Gramsci studia Dante
In Dante il regime fascista celebrò il precursore, il profeta, l’italiano nuovo e il mito letterario che si fa storia (“Se verrà un dì l’Italia vera”, diceva l’altro esule fuggiasco, Ugo Foscolo). Nel carcere, Antonio Gramsci studia e commenta il X canto dell’Inferno su Farinata e Cavalcanti ed è convinto che la Divina Commedia sia tutta politica; ma a suo parere (influenzato da Croce) “è il canto del cigno” del Medioevo, inefficace per incidere nell’Italia moderna. Gramsci studia Dante da critico letterario anche se la sua pare una lettura allusiva ai suoi rapporti con Togliatti e il Partito Comunista.
Il fascismo rielabora il mito dantesco, soprattutto in relazione al dux-duce-duca e al Veltro: nel nome della Romanità la lettura nazionalista e risorgimentale di Dante cede il passo alla Vision de l’Alighieri precursore dell’Impero risorto “sui colli fatali di Roma”. Ma l’universalità del sommo poeta è la nostalgia del Sacro Romano Impero.
La lettura politica s’intreccia con la lettura esoterica di Dante, nata da Gabriel Rossetti e Giovanni Pascoli e fiorita negli anni venti con Luigi Valli, poi Guénon e Guido De Giorgio, che tenta di influenzare Mussolini nel segno della Tradizione sacra romana. Julius Evola polemizza con la riduzione nazionalista di Dante, sottolineando la visione imperiale del poeta.
Danteum
L’universalità di Dante sarà poi affidata alle celebrazioni dell’Expo Universale: Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri su impulso di Mussolini, progettano il Danteum; edificio dedicato alla Divina Commedia che sarebbe sorto davanti alla Basilia di Massenzio nella Roma antica. Il progetto restò irrealizzato per via della guerra mondiale. L’ultima visione dantesca collegata al fascismo sarà nei Canti pisani di Ezra Pound: il poeta americano canterà nel LXXIV canto la fine di Mussolini e Claretta Petacci come un poema dantesco del ‘900.
Nel dopoguerra torna Poeta impolitico e inattuale. Prezzolini ne L’Italia finisce scriverà di Dante come L’Antitaliano, patriota deluso dalla sua patria, esule sdegnoso e tradito dalla madrepatria. L’uso politico di Alighieri nella Repubblica è residuale e marginale, lo si vedrà nel 700° della sua nascita, il 1965. Citazioni dantesche risuoneranno ancora in Parlamento; non a caso sarà il “neofascista” Giorgio Almirante il “dantista” politico più noto e appassionato (il suo è un Dante dannunziano).
Per Edoardo Sanguineti e per Umberto Eco Dante è un “reazionario” antimoderno anche se qualcuno lo leggerà come un contestatore e un eretico. Oggi il Dante politico e civile oscilla tra le censure della Cancel culture e le forzature indebite nell’Oggi, tra la condanna nel Medioevo oscuro e la riabilitazione grottesca in versione politically correct. Tra Dante e il ‘900 restano però insormontabili montagne: il Medioevo, la Visione del Sacro, il poema della Luce. (Da Il Borghese, gennaio 2022)
MV, Il Borghese (gennaio 2022)
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