Dante
Riceviamo e pubblichiamo articolo di
Mario Ferrari
Capisco: è vero, il canto ventesimo ottavo dell’inferno risulta alla lettera, apparentemente offensivo per un credente di fede mussulmana: Maometto insieme ad Alì , il caro genero e apostolo di Maometto, è posto da Dante con lui nell’inferno, tra i seminatori di discordie, di scismi, sottoposti da un demonio al taglio della spada.
Maometto appare sfigurato
Ce n’è abbastanza per un credente di fede mussulmana per scandalizzarsi ed indignarsi. È come se il poeta di Maometto Hassān ibn Thābit, mettesse i nostri profeti all’inferno. Questo è comprensibile ad una prima lettura. L’espressionismo delle interiora, del sangue, della “medulla”, sanno di orrido, le parole sono pittoresche, ventrali, volgari; ma forse in tale macello di carni, non emerge alcun preavviso psicologico realmente maligno: non si indaga volutamente nel profondo il malessere dei personaggi. Sembra quasi che la macelleria del tempo scismatico, sia la stessa pasta di carne concettuale in funzione di un contrappasso ben ponderato.
Ma l’insegnante in questione, dimentica una cosa certa: la letteratura
La Commedia non è la Bibbia, non è il Corano, è, grazie a Dio, un’opera d’arte irripetibile. Dante è , come tutti gli autori, anche la vittima immolata del suo stesso tempo crudo: egli è costretto alla gabbia concettuale del suo mondo, per fecondare immagini potenti di senso poetico profondo. Ma Dante ci ha abituati a non prendere mai alla lettera ogni fatto specifico del poema. Così come in certi momenti dell’ inferno, ci pare quasi di stare in paradiso, perché tutti sentiamo ed amiamo la profondità immaginifica della partecipazione del poeta di fronte alle vicende più drammatiche del suo tempo: le passioni a volte salvano i dannati, perché ancor più le provano nella disperazione dell’inferno: ricordo un verso dell’Eneide: “una Salus victis nullam sperare salutem ” [ l’unica salvezza dei vinti non sperare in alcuna salvezza, Eneide II, 354] , si addice a questo passaggio.Quanto alle contemplazioni paradisiache , esse sembrano in alcuni passi del paradiso, quasi velate condanne, per coloro che gelidamente le vivono in uno stato quasi atemporale, freddo, estatico, in una sorta di digiuno estetico dal punto di vista della resa poetica.
L’inferno è un ambiente virtuale medievale che funge come una sorta di apriori strutturale di condanna: una gattabuia dinamica piena di colpe, per un uomo di quel suo tempo
Eppure, così come noi sentiamo una partecipazione viva e universale per le vicende del canto quinto dell’inferno, quando i due amanti Paolo e Francesca sono colti dal raptus della passione, per immensarsi nell’arte che li sublima in uno stato paradisiaco dell’inferno, allo stesso modo non sentiamo lo stesso impulso in talune parti rarefatte del Paradiso . In altre parole: la bellezza dei versi salva, libera dall’inferno i due amanti, e li trasforma in icone paradisiache di una passione universale che supera l’ambiente preconizzato della cantica stessa. Non li si percepisce dannati, ma straziati di passione, quasi felici di piangere insieme , e vivi nel paradiso della poesia, seppure con pretesto, ora cantata da Dante in un luogo mestamente infernale. Allo stesso modo, alcuni episodi del paradiso ci sembrano quasi luoghi di un soft-inferno ordinato quanto gelido, pulito e levigato.
Un San Gregorio che ride del proprio errore nella classificazione dei cori angelici, mi pare quasi in un modo asettico, assente da passioni di pura estatica contemplazione; per esempio il canto IX del paradiso, triste e mesto dove Cunizza da Romano narra di sé e della sua terra con uno strano vaticinio : ” taci e lascia volger gli anni/
S’io che non posso dir se non che pianto/giusto verrà di retro ai vostri danni/”. Vi sembra paradiso ? Insomma Dante non è così semplice. Pensavo a questo, quando leggevo il passaggio espressivo su Maometto. Per questa ragione nel ventottesimo canto dell’inferno va in scena la mattanza solo apparentemente esibita nella sua nuda crudeltà della nona Bolgia dell’ottavo cerchio . In realtà i giochi sono più profondi.
Dal VV 28 la scena è del tutto apparentemente fisica, slabbrata, sanguinolenta, quanto funesta, ma stoica, qui giganteggia la figura del Profeta che pur storpiato, discorre liberamente,quasi a estraniarsi dalla sua stessa fisicità mutilata, fuori dalla mischia corporea, ma chiuso e sfigurato non si lamenta in modo tanto indegno, oltraggiato non sopporta che il suo destino, non scende a compromessi con chi lo ha posto all’inferno: non gli chiede alcuna grazia, e non cede, e non si umilia, anzi si preoccupa di Fra’ Dolcino, come se fosse un suo sodale, un membro della sua setta, auspicandone la famosa profezia di armarsi a fare provviste prima del gran freddo.
Questo discorrere è un evidente segno estetico di contrasto con il sanguigno spettacolo della carne in fluttuazioni: il Profeta pare non soffrire fisicamente, egli è solo, nella sua grandezza scorporata che contrasta con il suo discorrere arguto con Virgilio, chiedendo se Dante sia vivo o morto tra i dannati e mostrando invece il pianto di Alì: perché Alì piange e non piange invece Maometto?
Perché Alì è più reale, sofferente, pare ancora quasi umano, mentre Maometto conserva il suo status di ultraterreno, quasi in atteggiamento divino, non piangendo, non lamentando, e soprattutto non temendo. Innegabile. Basta vedere il sottile nascosto credito di ammirazione della grandezza che Dante riserva a un Profeta che soffre:
Mentre che tutto in lui veder m’attacco,
guardommi, e con le man s’aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco! 30
vedi come storpiato è Maometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto. 33
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Non lasciamoci ingannare, Maometto qui è un eroe che sfida mostrando a Dante la sua dannazione, ( vedi/vedi) storpiato da un tempo infausto che lui stesso non ha voluto, e mi pare che anche Dante vi partecipi a questo dolore. Bisogna leggere bene il brano: che pesa su tutto è questo: “furon vivi”. Perché Dante gli manda una sciabolata di rispettosa ammirazione, lo storpia, lo taglia, lo decompone, ma lo tratta da pari accettando il dialogo, perché anche se lo spasmo dello scisma divide , la partecipazione affettiva non è neanche troppo velata, infatti dice al lettore che costoro furono vivi, come chi in vita provocò scismi, ma adesso, chiosa, gli altri sono finiti così ( letteralmente: son fessi così) da intendersi in maniera avulsa dal significato corrente. Insomma, leggere tra le righe conviene per non liquidare il passo da banalità apparentemente di parte. Dante fa di Maometto un eretico, certamente, ma ne conserva intatta la grandezza tra i ” seminatori di scandalo e di scisma” ( Inf.XXVIII, vv35), ma non usa parole a caso: la parola scandalo è un cardine del linguaggio scritturale. La parola è scisma altrettanto nobile arte del separare, dello riscrivere la storia, perché è la parola che divide! Pensiamo a certi passi del Vangelo. Inoltre va analizzata la compagnia nella quale si trova il Profeta Maometto, il docile e buono Fra’ Dolcino, un puro della Chiesa, che fu cacciato per eretico ma autore di un messaggio di purificazione della fede contro i costumi dell’epoca.
Una strana compagnia. Malatestino che vede solo da un occhio ( anche in questo caso giudice imperfetto), fa annegare i due nobili Guido del Cassero e Angiolello da Cagnano; Pier da Medicina. Insomma un canto quello XVIII, è certamente colorito nel suo impasto di violenza drammatica, ma appare più plastico che crudele, ( la vera crudeltà è sempre solo psicologica in letteratura, mai fisica) sembra quasi, a quanto pare, nascondere un messaggio di viva partecipazione alla grandezza dei protagonisti, i quali, altro fatto rimarchevole, non lamentando il realismo del dolore ci consegnano un messaggio di grandezza. Nella mia “Umana Commedia” [ Umana Commedia, La Torre dei Venti, Gruppo Tabula Fati, 2020, €16] che è opera incompresa, ma scritta proprio con questo fine di sdoganare, mettendomi in gioco, da certo medievalismo con una rivisitazione in terzine della modernità dantesca, proprio seguendo il principio di Dante, con l’idea che era stata proprio di modenizzzare i molti concetti medievali di oscurantismo e di stasi, in ragione di un avvicinamento del poema al lettore moderno, liberando da certe oppressive forme medievali, in ragione di una condivisione generale di fede e di valori religiosi comuni ( il credere in Dio, l’amore per il prossimo), riporto questo brano:
Ma il corpo del cristiano è capitello
Marmo di luce davanti alla morte
Che mai si fece indietro sul più bello
“ Quante battaglie provocò la sorte”
Disse lo Dante mio di tanta sfida:
“Per contenere Dio tra le due porte.
Prima che il Vello la ragione incida
Che Otranto cattedrale piena d’ossa
Benché io ebbi al mondo Cacciaguida!
…
Pur non sapendo che quel Dio dei cieli
Era lo stesso Vero, puro e netto!
La sola verità nel vero santo
Che i nomi sopra Dio non hanno tetto.”
Pertanto caro allievo di fede mussulmana, Dante non ti voleva offendere, era vittima del suo tempo, cogli nel frammento della sua scrittura i momenti di vicinanza, cogli le sottili voci che lo hanno spinto a parlare. Ma tutto questo è compito del docente: educare vuol dire fare emergere il vero senso profondo di ogni arte, di ogni grandezza e non chiudere il libro a priori.
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