DELMASTRO CONDANNATO MA QUALCOSA NON TORNA

DELMASTRO CONDANNATO MA QUALCOSA NON TORNA

L’ottava sezione penale del Tribunale di Roma ha condannato Andrea del Mastro delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia, a 8 mesi di reclusione con attenuanti generiche, sospensione condizionale della pena e interdizione dai pubblici uffici per un anno.

Si tratta di una sentenza di primo grado, come noto, non esecutiva e che ben potrà essere ribaltata nei successivi gradi di giudizio

Però quanto accaduto non è cosa che si possa ignorare semplicemente, non solo per la rilevanza del personaggio politico coinvolto, ma anche e soprattutto per le dinamiche processuali che hanno delineato l’intera vicenda.

Stiamo parlando del famoso “affaire Cospito”

Alfredo Cospito, “punta di diamante” del movimento anarchico e in carcere a Sassari con il regime del 41 bis era stato pizzicato (cioè intercettato) nell’ora d’aria a conversare con alcuni detenuti circa varie misure tra cui alcune simboliche da adottare contro lo strumento del “carcere duro”. Erano i tempi in cui si discuteva di alleggerire la misura – che ricordiamolo, riguarda mafiosi e terroristi – vista l’applicazione di limitazioni assai gravose alla “libertà del detenuto”.

Alfredo Cospito dunque intendeva intestarsi una battaglia politica e culturale non si sa bene in forza di quale legittimazione. Questi era stato anche visitato in quei giorni da una delegazione del Partito Democratico. Non si conosce bene la finalità o il motivo di tale visita, ma la cosa aveva suscitato dubbi e sconcerto non solo nel centrodestra, ma anche in una parte cospicua dell’opinione pubblica

Durante un dibattito alla Camera avente ad oggetto la questione, il deputato Giovanni Donzelli di Fratelli d’Italia chiedeva a qual titolo i parlamentari democratici fossero andati a trovare Cospito e, nel quadro del suo intervento, aveva rivelato pubblicamente il contenuto di alcune informazioni estratte da quei colloqui che Cospito aveva tenuto con altri detenuti e che erano sotto intercettazione della Polizia.

Al che la sinistra balzava dagli scranni perchè Donzelli non poteva essere direttamente a conoscenza di tali informazioni e, infatti, lo stesso deputato riferiva che aveva appreso le informazioni da Andrea del Mastro delle Vedove, il quale, in quanto Sottosegretario alla Giustizia vi aveva accesso diretto.

Da lì la querela di alcuni parlamentari del PD. Violazione del Segreto d’ufficio. Tutt’ora si rammentano le facili ironie della sinistra sul fatto che i due condividessero al tempo lo stesso appartamento per le trasferte romane

Querela che sarebbe caduta nel vuoto dal momento che il Pubblico Ministero aveva richiesto immediatamente l’archiviazione del procedimento non essendoci prove che Del Mastro fosse a conoscenza del fatto che le informazioni in questione erano coperte da segreto.

Pertanto la rivelazione e la divulgazione, secondo la procura, difettavano dell’elemento soggettivo del reato e il processo non si doveva fare.

Ed ecco il primo colpo di scena. Innanzi alla richiesta di archiviazione da parte della Procura di Roma, il GIP ordina l’imputazione coatta, obbligando il PM ad andare avanti.

Perché? Mistero!

La Procura dunque chiede – obtorto collo – il processo e questo si celebra, concludendosi con richiesta di assoluzione dell’imputato Del Mastro e contestuale richiesta di assoluzione da parte della difesa. Sembrerebbe tutto lineare. Una vicenda grottesca, cavalcata politicamente dai querelanti, e destinata a sgonfiarsi in sede processuale.

E invece no! Secondo colpo di scena, il Tribunale condanna!!!! Del Mastro è colpevole nonostante le richieste di assoluzione delle parti. Non conosciamo ancora il percorso logico giuridico seguito dai togati per addivenire a un simile verdetto poiché le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate.

Sarà certamente interessante farlo, soprattutto per la difesa di Del Mastro che, coerentemente, ha già preannunciato di interporre appello (potrebbe farlo anche la Procura, vista la dinamica della vicenda)

Ne vedremo delle belle in Appello e (eventualmente) in Cassazione, dove obiettivamente è prevedibile immaginare un rovesciamento della sentenza in questione.

Uscendo dai tecnicismi, potremmo sintetizzare: 1) Accusa e Difesa chiedono l’archiviazione e il GIP ordina di processare Del Mastro; 2) Accusa e Difesa chiedono l’assoluzione dell’imputato e il Tribunale condanna Del Mastro.

Tutto regolare intendiamoci. Non c’è dal punto di vista del diritto penale alcun vincolo alle richieste delle parti per il Giudice che deve decidere, ben potendo farlo indipendentemente da esse o, come in questo caso, contrariamente ad esse (Nel diritto civile, invece il Giudice non può oltrepassare il limite rappresentato dalle richieste delle parti in causa).

Cionondimeno, ricorre il rischio di una nuova contrapposizione fra magistratura e politica su una vicenda che francamente ha del surreale. L’ANM infatti è subito insorta contro chi sta criticando la sentenza, ma la questione a ben vedere è un’altra, persino di natura strutturale e non limitata al caso concreto

La regolamentazione riflette residui di una concezione autoritaria del diritto che mal di sposa con i principi che presiedono al processo penale dalla Riforma Vassalli in poi. L’Autorità del Giudice che può prescindere dalla volontà delle parti – in cui una peraltro rappresenta l’interesse pubblico – è effettivamente anacronistica rispetto a una visione moderna del diritto penale e processuale basato sul modello inglese noto come “processo accusatorio”.

Dal punto di vista tecnico, scontiamo l’eterno ritardo con cui si è tradotto quel principio cristallizzato nella Riforma Vassalli del 1989 nell’effettiva prassi processuale

Dal punto di vista specifico, però alcune osservazioni si possono fare. Intanto non possiamo non osservare la stranezza assoluta derivante dall’accanimento della magistratura giudicante nei confronti di Del Mastro. Se l’accusa, deputata a rappresentare il pubblico interesse alla repressione dei reati aveva rilevato sin da subito l’inesistenza del reato, perché proseguire?

Cioè se Del Mastro non sapeva e poteva non sapere che il contenuto di quelle informazioni era coperto da segreto, dove sta la condotta illecita?

E allora non si comprende il primo colpo di scena. L’imputazione coatta che è ipotesi certo prevista dal codice, ma raramente applicata, si rivela davvero eccessiva per la vicenda in sé.

A maggior ragione se a seguito dell’istruttoria dibattimentale l’accusa rimane del medesimo parere circa l’infondatezza del fatto attribuito all’imputato e, assieme alla difesa, formula richiesta di assoluzione, come è possibile che si giunga a un esito diverso? Insomma , vedremo, ripeto, quale saranno le motivazioni, ma è lecito avere delle perplessità.

C’è forse un’ostilità specifica verso Del Mastro che rappresenta il Ministero della Giustizia, da tempo impegnato per una riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario?

A mettere insieme le reazioni della magistratura nei confronti di questo Governo e di ogni suo provvedimento in materia, ripetesi, il dubbio è più che lecito. Si vuole forse dare un segnale di forza – ennesimo – al potere politico da parte di quello giudiziario?

Del Mastro ha già affermato che si tratta di una sentenza politica che tuttavia non avrà come conseguenza alcuna dimissione dai pubblici uffici e tale circostanza è stata ribadita anche da Giorgia Meloni che si è detta sorpresa dall’esito processuale ma che esclude alcun passo indietro del sottosegretario.

Così Nordio e altri esponenti della maggioranza che hanno tenuto a sottolineare la loro solidarietà e vicinanza a Del Mastro

Di contro, la Sinistra ha chiesto immediatamente le dimissioni del sottosegretario, sulla base di quale principio tuttavia è ancora da capire. Si suppone che anche da quelle parti conoscano la presunzione di non colpevolezza costituzionalmente garantita e quindi pretendere una sorta di “pena politica” anticipata fa un po’ sorridere, ma mica tanto!.

Si dirà..questione di opportunità. Ma non è così!

Questo ragionamento che già non convince vista la tradizionale attitudine a usare le sentenze penali per colpire il nemico politico, in questo caso convince ancor meno per i motivi sopra rappresentati.

CI potrebbe essere del buono tuttavia da recuperare da questa vicenda !

Al netto del solito giustizialismo, naturalmente a targhe alterne a seconda che venga colpito un amico o un nemico, quanto accaduto potrebbe invero essere spunto per una normazione finalmente diversa e adeguata con il modello accusatorio

Dal momento che in discussione è una modifica legislativa che impedisca al pubblico ministero di interporre appello quando v’è sentenza di assoluzione in primo grado in ossequio ai principi liberali del diritto, in base a quegli stessi principi, si potrebbe introdurre una norma che impedisca al giudice di distaccarsi dalle richieste congiunte delle parti in caso queste convergessero verso l’assoluzione dell’imputato.

In tal modo la doverosa terzietà del giudice rispetto agli interessi di parte si completerebbe con una doverosa attinenza al principio del “favor rei” che presiede all’ordinamento penalistico, e che costituisce una ineliminabile garanzia processuale

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