Democrazie mafiose. Mezzo secolo fa Panfilo Gentile pubblicò un affilato pamphlet sull’involuzione oligarchica delle democrazie e sulla trasformazione dei partiti in circuiti chiusi e autoreferenziali di stampo mafioso. Lo pubblicò nel 1969 l’editore Volpe, ma il libro uscì dalla ristretta cerchia dei lettori di destra perché Indro Montanelli lo elogiò sul Corriere della sera. Ci aveva visto giusto, Gentile, sull’involuzione mafiosa e partitocratica delle democrazie; ma non aveva ancora visto l’Italia, e l’Europa, dei nostri anni, la spaccatura verticale tra popolo e notabilato, tra sovranità nazionali e potentati interni e internazionali, l’esproprio del voto fino al disprezzo per la volontà popolare e gli interessi nazionali.
È la quarta volta consecutiva che la sinistra in Italia si affaccia al governo non legittimata direttamente dalle urne. Letta, Renzi, Gentiloni, e ora si profila il quarto governo, non solo non scaturito dalle urne ma nato con lo scopo evidente di evitarle. Per adeguarsi al tono e al livello delle accuse che lancia la sinistra a chiunque governi senza il suo benestare – dittatura, ritorno al nazismo e al fascismo, leader anti-sinistra trattati tutti come delinquenti comuni – si potrebbe dire che la sinistra è un’associazione politico-culturale di stampo mafioso che elimina gli avversari con sistemi non democratici, mette a tacere i dissidenti con forme di omertà e discriminazione, s’impossessa del potere con metodi non democratici e impone un protettorato antipopolare funzionale ai codici ideologici e politici della cosca.
Lasciamo il terreno melmoso delle polemiche e saliamo di un piano. Cosa sta succedendo alle democrazie europee? Le classi dirigenti si sentono assediate a nord dal modello Brexit, a sud dal modello Salvini, a est dal modello Orban e a ovest dal modello Le Pen. Sono i quattro punti cardinali del sovranismo, ma sono anche quattro forze maggioritarie nei loro paesi, tutte criminalizzate. Dietro di loro vengono esorcizzati gli spettri di Trump, di Putin, di Bolsonaro, di Modi, di Abe, e si potrebbe continuare. Forme diverse di primato nazionale e identitario rispetto al modello liberal-radical-dem della sinistra.
Per trovare un modello diverso di rifermento si ricorre al modello cinese. Recensioni entusiastiche del Corriere della sera e de la Repubblica hanno accompagnato la traduzione del libro di Daniel A. Bell Il modello Cina, con un sottotitolo indicativo: “Meritocrazia politica e limiti della democrazia” (Luiss, prefazione di Sebastiano Maffettone). Il modello cinese non è una democrazia, ma è un regime liberista, oligarchico e comunista, col doppio primato del mercato e del partito. È un sistema capitalistico ma illiberale, in cui la sovranità popolare è in realtà un feticcio ereditato dai tempi di Mao, che elogiava il popolo ma poi lo rieducava con la forza, instaurando una sanguinaria dittatura. Ora quel tempo è passato, la Cina ha fatto passi da gigante, si espande nel mondo tra tecnica e finanza, dall’Africa all’Occidente; il turbo-comunismo resta catechismo di stato. Il capitalismo assume in Cina il ruolo che aveva la tecnologia per Lenin: la sua formula fu socialismo + elettrificazione, oggi la formula cinese è comunismo + mercato.
Bell, canadese che guida una facoltà di scienze politiche e pubblica amministrazione in Cina, non sposa il regime cinese nei suoi tratti più repressivi, corrotti e totalitari o l’autocrazia di Xi Jinping ma lo addita come modello per la formazione di classi politiche competenti, per il controllo del consenso popolare e la nascita di una tecnocrazia vigilata sotto il profilo etico (l’ultimo travestimento dell’ideologia e del politically correct).
La Cina diventa per l’Europa e in particolare per l’Italia (che coi grillini ha già sposato la via della Seta) il paese di riferimento per uscire dalla morsa Usa-Russia-India-Brasile più sovranisti nostrani e per limitare la democrazia.
Un modello che ruota intorno all’Intellettuale Collettivo che è poi il Partito, la Setta, la Casta; è la Cupola a rilasciare o revocare patenti di legittimazione, a vigilare sulla democrazia e a stabilirne i filtri, i limiti e a deciderne gli assetti.
Resta però irrisolto un molesto interlocutore, il popolo sovrano. Come aggirarne la volontà e come impedire – oltre che con le inchieste giudiziarie e le criminalizzazioni mediatiche – l’avvento di leader sovranisti?
Il mio suggerimento non del tutto ironico è prendere esempio non dalla lontana Cina ma dalla lontana Roma del quinto secolo avanti Cristo: istituire i Tribuni della Plebe. Ovvero incanalare il consenso popolare, gli umori e legare i capi populisti verso quei ruoli d’alta magistratura. I tribuni della plebe sono difensori civici che rappresentano gli umori popolari, legittimamente nominati e ascoltati; ma poi a governare ci pensano i consoli e i patrizi (ora provvisoriamente consociati a un altro clan prodotto dalla piattaforma Rousseau). È forse la soluzione più equilibrata e meno truffaldina di limitare la democrazia: il popolo non esercita più la sovranità, ma solo il controllo tramite i tribuni. Il potere resta saldamente nelle mani del patriziato, delle oligarchie, delle cupole. Un compromesso, una divisione dei poteri, una regolamentazione “costituzionale” del potere mafioso vigente in Italia e per certi versi in Europa, dove governano leader di minoranza quasi ovunque, dalla Francia alla Germania, alla Spagna. Pensateci, è una soluzione per aggirare la democrazia e frenare i populisti.
MV, Panorama n. 40 (2019)