Le mafie traggono la “linfa vitale” necessaria a rigenerarsi “in soggetti sempre più giovani, impiegati in professioni poco qualificate o senza occupazione”. Lo scrive la Direzione investigativa antimafia nella Relazione sull’attività del primo semestre 2018 consegnata al Parlamento sottolineando che, se da un lato le organizzazioni investono sempre di più su “imprenditori e liberi professionisti”, dall’altro puntano ad arruolare “operai comuni” e soggetti “in attesa di occupazione” nella fascia più giovane, quella tra i 18 e i 40 anni.
Nell’analizzare il fenomeno la Dia sottolinea come le mafie, nonostante “la forte azione repressiva dello Stato”, continuino ad avere una “capacità attrattiva” sulle giovani generazioni, non solo nel caso di figli di boss o di ragazzi provenienti da famiglie mafiose ma anche e soprattutto quando queste fanno parte di un bacino molto più grande di “reclutamento generale” dal quale “attingere manovalanza criminale”. Un bacino che continua ad essere alimentato dalle difficili condizioni sociali del sud: il reclutamento, dice infatti la Dia, “non appare certamente disgiunto da una crisi sociale diffusa che non sembra offrire ai giovani valide alternative per una emancipazione dalla cultura mafiosa”. In sostanza, le mafie riducono “sensibilmente l’iniziativa imprenditoriale lecita, approfittano dello stato di bisogno di molti giovani e speculano sulla manodopera locale, dando l’effimera sensazione di distribuire un salario (sempre minimo per generare dipendenza e senza garantire i contributi previdenziali e quindi un futuro) ai giovani impiegati al suo servizio perché privi di alternative”. Concetti che i numeri esplicitano in maniera ancora più chiara: negli ultimi cinque anni non solo si sono registrati casi di ‘mafiosi’ con un’età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni e, in un caso, lo hanno anche superato (nel 2015 i denunciati e gli arrestati per 416 bis sono stati 5.437 di cui 2.792 tra i 18 e i 40 anni e 2.654 tra i 45 e i 60).
Dall’analisi degli investigatori della Dia, emerge nella Capitale “uno spaccato importante della capacità della ‘ndrangheta di infiltrarsi, dissimulando le proprie tracce, nel territorio romano”. E’ quanto si legge nel rapporto dell’ultima Relazione Semestrale della Dia, in particolare in un focus dettagliato sulla “Criminalità Organizzata romana”.
Secondo la relazione, “proprio questa sua capacità mimetica rende difficile tracciare una mappatura esatta della presenza sul territorio della Capitale”. Diversi sono i riferimenti a vari esponenti di cosche crotonesi, reggine e cosentine. Queste ultime – che hanno referenti delle ‘ndrine di San Luca Pelle, Pizzata e Strangio e dei Muto di Cetraro – sarebbero “specializzate nell’usura, nelle estorsioni, nelle rapine, nel traffico di stupefacenti ed armi, avvalendosi anche del supporto di pregiudicati romani”.