Donne, non prendetevela col pater

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Care donne e cari maschietti al seguito, per l’8 marzo, vi invito a fare un piccolo sforzo: anziché ripetere il solito rosario di luoghi comuni sui femminicidi e le violenze alle donne, provate a pensare diversamente e a riflettere su due cose che vi ostinate a non vedere.

La prima salta agli occhi ma non volete vederla. La visibilità pazzesca dei crimini compiuti contro le donne, lo sdegno unanime e istituzionale per i delitti sessisti, le proteste di piazza, perfino la violenza inflitta al codice penale e alla giustizia istituendo l’obbrobrio giuridico del femminicidio – come se uccidere un uomo, un bambino, un vecchio sia meno crimine che uccidere una donna – ha portato a questo brillante risultato: in vent’anni non sono affatto diminuiti i femminicidi, anzi.

Restano costanti, più di un centinaio all’anno, con recenti impennate da paura. Allora vi chiedo: il trattamento speciale dei crimini contro le donne, il pugno di ferro della giustizia contro gli assassini di donne, la copertura mediatica e istituzionale enorme, le trasmissioni gli appelli, la mobilitazione permanente, è tutto totalmente inutile dal punto di vista dei crimini commessi. È simbolico ma del tutto inefficace. I femminicidi stanno lì davanti ai nostri occhi a dimostrare che più ne parli, più li condanni e più succedono; o perlomeno accadono comunque, nonostante le condanne esemplari, le denunce vibranti e le indignazioni corali.

Particolarmente demente e ideologicamente in malafede mi pare poi la sottolineatura ossessiva che i crimini commessi contro le donne avvengono soprattutto tra le pareti domestiche o comunque da parte di mariti, fidanzati e famigliari. Lo scopo è denigrare e delegittimare la famiglia, farla scadere da focolare di affetti e premure a focolaio di violenze e abusi. Ma è ovvio che le violenze accadano soprattutto tra congiunti, tra persone che si frequentano assiduamente e non tra estranei o verso casuali passanti. La persona che ti sta accanto è il primo bersaglio per scaricare le tue insofferenze.

L’intento subdolo della denuncia è suggerire che la fonte dei crimini e misfatti è la famiglia come istituzione, è la coppia tradizionale; non lo stupratore estraneo, magari straniero e pure clandestino. Ma questo pregiudizio antifamigliare regge su una piccola, enorme omissione: a fronte di alcune migliaia di casi di violenza e sopraffazione in casa, ci sono alcuni milioni di famiglie e di coppie tradizionali che non conoscono violenze e soprusi ma amore, cura, dedizione e comprensione, rispetto reciproco. Capite? Migliaia contro milioni; e se parliamo di femminicidi, decine di casi contro decine di milioni di rapporti sereni, perfino noiosi. Magari pure contrastati o ipocriti, ma non violenti.

Ma la cosa più importante su cui riflettere è un’altra. A ogni femminicidio, e in genere a ogni violenza contro le donne, la spiegazione è sempre la stessa, è un modulo ideologico prestampato e ripetuto all’infinito: è il vecchio maschilismo che insorge, è la supremazia animalesca del maschio e la sottomissione della femmina che si sentono minacciate; è il modello macho e virile che si impone con la violenza. Ma avete provato a leggere con più attenzione i recenti “femminicidi”?

Lo schema classico è che lei non vuole stare più con lui, lo ha lasciato per un altro o anche no; e lui la perseguita, cerca di rimettersi insieme, vuole rivederla e poi la uccide. A volte uccide pure i figli piccoli che vivono con lei; a volte – sempre più spesso- dopo il crimine si suicida o tenta di farlo. Suggerirei sommessamente ai disperati abbandonati, se proprio non sono in grado di trovare soluzioni migliori, d’invertire almeno la sequenza e cominciare dalla fine: uccidetevi prima voi, anziché uccidere e accanirsi pure con i figli. Però la furia acceca.

Ma torno alla dinamica di quei “femminicidi”: voi li vedete come il frutto di machismo, affermazione estrema di supremazia maschile, ripristino di una superiorità o di una maestà spodestata. A me sembra esattamente il contrario: sono il frutto di debolezza, di dipendenza patologica e assoluta dalla donna-moglie-madre-matrona, incapacità di concepirsi autonomi, indipendenti, sovrani della propria vita. Il messaggio che sottende questi femminicidi è uno: non posso vivere senza di te, se mi lasci ti ammazzo, li ammazzo, mi ammazzo. Non è il macho che insorge ma è il micio abbandonato che reagisce.

Se avesse un minimo di dignità maschile, di orgoglio “virile”, si allontanerebbe, guarderebbe altrove, si sforzerebbe di eliminarla dalla sua mente e dal suo cuore, si rifarebbe una vita o si dedicherebbe ad altro. Riaffermerebbe la sua autonomia, la sua indipendenza, il suo coraggio di vivere senza di lei. Non riesce a farlo perché dipende totalmente da lei; il suo io è costruito sulle spalle di lei, non riesce a farne a meno, è un amore malato che muta in odio. Un legame come bisogno, schiavitù, insicurezza, fragilità, tossicodipendenza. La stessa eliminazione dei figli rivela il rifiuto della loro responsabilità di padri, ma un puro egoismo tardo-adolescenziale.

Allora, gentili donne che celebrate la vostra Festa di Liberazione, provate a vedere le cose con occhi diversi, fatevi perlomeno visitare da un dubbio: che il femminicida tipo non sia il maschio ferito nel suo orgoglio che vuole riaffermare il suo antico potere, quella semmai è la sua maschera; ma sia l’impotente, il debole, lo sconfitto, il bisognoso che esaurisce la sua vita e il suo mondo in voi e si aggrappa a voi con tutta la forza della disperazione e se voi vi scrollate di lui, vi trascina con lui all’inferno.

Ma il mondo, la vita, l’anima, l’umanità sono molto più vaste di una persona e di un rapporto a due. E poi ci sono i famigliari, i figli, gli altri, non solo lei. Donne, chi vi uccide non è il pater patronum all’antica, ma il figlio disturbato del presente.

MV, La Verità

 

 

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