Espansione territoriale tra passato e futuro 

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Espansione territoriale tra passato e futuro

Le dichiarazioni di Trump, sulle ipotesi di avere il Canada come 51 Stato della Unione e di espandere il territorio USA a sud fino al Golfo del Messico e allo Stretto di Panama e a nord fino in Groenlandia, non corrispondono certo ad un programma politico ma non possono neppure essere derubricate a semplici battute.

Perché, se da un lato vengono fatte per intimorire Paesi vicini (onde addomesticarli meglio) o Superpotenze lontane al fine di distoglierle da tentazioni imperiali, dall’altro lato esse rispondono ad antiche ossessioni statunitensi

Bisogna infatti risalire al 1776 quando le tredici colonie nord-americane si ribellarono alla Corona britannica fondando una nuova nazione indipendente: l’Unione degli Stati d’America. Che nacque con la preoccupazione di crescere in territorio e popolazione per contenere la temuta egemonia dell’impero britannico.

Tant’è che nel 1803 -dopo l’avvento al potere di Napoleone, storico nemico degli Inglesi- la Unione degli Stati d’America comprò dalla Francia (per 15 milioni di dollari) un immenso territorio che, pur chiamandosi Louisiana come l’attuale piccolo Stato, si estendeva da New Orleans al Montana con una superficie che era il doppio di quella dell’Unione

La quale nel 1812, appena Napoleone lanciò la Grande Armata all’assalto della Russia, pensò bene di dichiarare guerra alla Gran Bretagna. Con il quarto Presidente dell’Unione, James Madison, che dette ordine al giovane esercito americano di varcare le frontiere del Canada per espellere definitivamente gli Inglesi dal Nuovo Mondo.

Ma quella che fu presentata come una seconda guerra di indipendenza si rivelò un disastro: le truppe americane dovettero battere in ritirata ed assistere poi all’invasione del territorio dell’Unione da parte degli Inglesi

Umiliazione che culminò nel 1814, a seguito della caduta di Napoleone, allorché gli Inglesi inviarono nuove truppe che si impadronirono della capitale Washington, incendiando la Casa Bianca, il Campidoglio e altri edifici. Da allora gli Stati Uniti rinunciarono al Canada, accontentandosi di acquistare nel 1867 l’Alaska dalla Russia per 7 milioni di dollari, e proseguirono la loro espansione territoriale verso sud-ovest fino al Texas e all’Oceano Pacifico, strappando territori al Messico.

Lo spazio territoriale fu insomma subito visto dagli Americani, unitamente al controllo di risorse e all’aumento di popolazione, come uno strumento di potere necessario per affermarsi e difendersi

Secondo una logica geo-politica che, offuscata dagli ideologismi del “secolo breve”, è ora tornata a dominare i rapporti tra Stati ed in particolare tra Superpotenze. Ma c’è di più.

Le dichiarazioni di Trump sulla indispensabile strategia di controllo del territorio, fatte a proposito della Groenlandia, mettono in soffitta certe teorie della globalizzazione che legavano potere e sicurezza al solo controllo delle reti (informatiche, finanziarie e commerciali)

Non che quest’ultimo aspetto sia secondario, ma non è sufficiente. E si torna perciò all’antico: al controllo del territorio, con i suoi spazi e i suoi confini.

Una logica che i Russi, più ancora dei Cinesi, ben comprendono; dato che l’invasione dello spazio ucraino fu perseguito proprio a tale scopo

Una logica che rende inoltre evidente l’importanza assegnata ai confini, che non sono linee immaginarie ma barriere che non possono essere impunemente infrante da truppe militari nemiche o da orde di clandestini accompagnati da Ong di ogni genere.

Tutto questo per dire cosa?

Che il mondo è cambiato. Non è più quello ideologico del secolo breve ma non è neppure quello liquido della globalizzazione. Ed è perciò necessario un nuovo paradigma interpretativo, per comprenderne la complessità e governarlo al meglio. Le provocazioni di Trump possono in tal senso aiutarci.

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