La manovra economica dell’attuale Governo presenta spunti di interesse, quanto a possibili positivi impatti sul tessuto sociale, anche se dovranno essere chiariti alcuni aspetti quantitativi necessari per un sufficiente equilibrio dei conti. Purtroppo, la manovra stessa non è accompagnata da una adeguata consapevolezza nella rappresentazione degli intendimenti soprattutto sul versante estero, in specie nei confronti della UE. Non hanno certamente aiutato talune prese di posizione di esponenti politici di rilievo, anche presenti nella compagine governativa, fortemente critiche nei confronti dell’euro, fino a paventare l’uscita dell’Italia dalla moneta unica.
Ora, è difficile ma non impossibile che l’esperienza dell’euro possa concludersi, magari in modo “ordinato”, ovvero con il generale consenso dei Paesi fondatori, anche se ritengo che un nucleo di Paesi, in specie dell’Europa del Nord manterrebbero la moneta unica (c.d. area germanocentrica).
Dobbiamo quindi immaginare che sia l’Italia a uscire dalla moneta unica. La situazione in cui verrebbe a trovarsi il nostro Paese in tale circostanza sarebbe estremamente complessa sia nell’ipotesi di un’uscita coordinata sia nel caso di un abbandono traumatico dell’euro.
Nel primo caso molto dipenderebbe dagli accordi che verrebbero stipulati con gli altri Paesi europei, ma alcuni importanti effetti sarebbero presumibilmente gli stessi di un’uscita volontaria, ma non concordata ovvero di un’uscita forzata.
E’ diffusa e continuamente alimentata da una certa politica, ma anche da autorevoli economisti la convinzione fra la popolazione che il ritorno alla lira sarebbe la panacea di tutti (o quasi) i mali che affliggono l’Italia.
Va detto che gli effetti negativi probabili (estremamente probabili) dell’abbandono dell’euro e della “riconquista” della sovranità monetaria non vengono adeguatamente rappresentati neppure dai difensori della moneta unica. Eppure esistono studi recenti in materia (uno per tutti la r pubblicazione di C. Stagnaro “Cosa succede se usciamo dall’euro? Quanto costerà e chi ne pagherà il prezzo”), che approfondiscono anche gli effetti in termini quantitativi del ritorno alla vecchia moneta.
In genere si ipotizza una iniziale svalutazione della lira (intorno al 30 per cento) e la ricomparsa di tassi di inflazione che l’adozione dell’euro ha messo in soffitta. Siamo fondamentalmente un Paese di trasformazione e pagheremmo le importazioni in dollari a fronte di una moneta nazionale estremamente debole. Dunque, risparmi e redditi fissi (lavoro dipendente e pensioni) falcidiati da svalutazione e inflazione. Sull’altare del sovranismo monetario verrebbe immolato quel che resta della classe media e chissà per quanto.
I benefici? Tutti da scoprire. L’ipotesi che l’economia italiana possa avvantaggiarsi tramite svalutazioni competitive è illusoria. Gli altri Paesi dell’area euro, che rappresentano sempre circa il 50% dei mercati di destinazione delle nostre merci, fronteggerebbero facilmente tale svalutazione competitiva con l’applicazione di dazi (Trump insegna).
Tornerebbe in Italia la manifattura a basso valore aggiunto fortemente delocalizzata nel corso degli anni 90 del secolo scorso e nel primo decennio del 2000 nei paesi dove il fattore lavoro era a basso costo? Improbabile, se non impossibile. Il processo inverso richiederebbe praticare politiche retributive concorrenziali nei confronti dei Paesi destinatari delle delocalizzazioni delle nostre imprese. Il tessuto sociale italiano accetterebbe o sarebbe in grado si assecondare il conseguente e generalizzato abbassamento del tenore di vita? Non credo proprio.
Dunque? Non proclami, ma attento studio e costante dialogo sul versante europeo della questione euro, sia per il mantenimento della moneta unica, che necessita comunque il completamento di importanti aspetti dell’Unione Europea (unione bancaria, politiche fiscali e di bilancio, ecc.) sia per prepararsi ad un eventuale, non auspicabile collasso dell’euro (e non basta un piano B monetario).