“Una riflessione sulle motivazioni che guidano l’atto di collezionare e sulle modalità con cui una raccolta è custodita, presentata e vissuta”.
Così Fondazione Prada presenta il progetto espositivo “Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori”, concepito dal regista Wes Anderson (“The Grand Budapest Hotel”, “Moonrise Kingdom”, “The Darjeelin Limited” tra i suoi film più celebrati) con la compagna Juman Malouf, storica dell’arte di origine libanese. È la terza incursione nel materiale e l’immaginario dell’arte antica che l’istituzione milanese mette in opera nel corso della sua ancor breve storia. In particolare, va ricordata nel 2018 la poderosa riflessione sul Barocco affidata all’artista belga Luc Tuymans, che vide le opere di Rubens, Jordaens, Van Dyck, Zurbarán e Caravaggio accostate ai grandi plastici di Jake e Dinos Chapman e ad altri esponenti dell’arte contemporanea.
a mostra affidata a Wes Anderson si avvale invece dei prestiti provenienti dal Kunsthistorisches Museum di Vienna, e in particolare da alcune collezioni che restano per lo più ai margini del percorso di visita battuto dal pubblico di massa, dal Museo del Teatro a quello delle Carrozze, dal Dipartimento di Armi e Armature al Gabinetto di Numismatica, dalle raccolte di Arte Egizia e Greco-Romana al Museo Etnografico. Ma il cuore del progetto è con tutta evidenza l’esplorazione della camera d’arte di Ferdinando II a Schloss Ambras, la residenza asburgica nei pressi di Innsbruck. L’intenzione che ispira l’intervento di Wes Anderson resta probabilmente al di fuori della lettura del pubblico che frequenta Fondazione Prada come un presidio del contemporaneo, e vede in questa mostra apparentemente eccentrica una sorta di sondaggio nell’estetica del regista texano, da sempre ispirata a una magnifica ossessione per collezionismo e display, al punto di fare del proprio cinema per molti tratti una forma narrativa che interferisce con lunghe carrellate di macchina sui modi in cui sono disposti oggetti ed arredi all’interno di abitazioni, alberghi, luoghi pubblici, mezzi di trasporto. Ma il sottotesto della mostra milanese è appunto l’osservazione puntuale di quella che di fatto è stata la prima raccolta museale della storia pensata con criteri moderni, a partire dalla classificazione degli oggetti e dalla loro collocazione nel Castello Inferiore di Ambras, costruito da Ferdinando II a partire dal 1570. Sappiamo da un disegno realizzato da Joris Hoefnagel, che gli Asburgo già utilizzavano il termine “Museo” in riferimento alle raccolte del Castello di Ambras. Esistevano già altre collezioni museali in Europa, come quelle Capitoline o Vaticane, ma nessuno aveva pensato un edificio in funzione meramente espositiva. Il primo fu Ferdinando I, padre del signore di Ambras, che nell’Hofburg viennese ricavò una Kunstkammer, di cui oggi restano solo le tracce perimetrali nelle fondamenta.
Wes Anderson si è ispirato dunque a Schloss Ambras, ne ha convocato a Milano alcuni degli oggetti più curiosi, e ha sondato le importantissime raccolte del Naturhistorisches Museum di Vienna. Val la pena di ricordare che questo grande museo è di fatto gemello del Kunsthistorisches, essendo nato nello stesso anno, il 1891. Gli Asburgo avevano tenuto fede al disegno fondativo delle istituzioni museali dei loro predecessori, trasmettendo l’idea di una conoscenza che considerasse le opere e la storia dell’uomo e lo studio delle scienze naturali. Gli armadi di Ambras hanno ispirato, persino nelle cromie dell’attuale concept espositivo, il display della mostra di Milano. Che corre il rischio di essere scambiato per un gioco postmoderno -dunque ludico- sull’idea sin troppo abusata negli ultimi anni di Wunderkammer, con affondi leziosi nelle tangenze con il gusto e la sensibilità contemporanee. Dove si sostiene che “la mostra sfida i canoni tradizionali che definiscono le istituzioni museali, proponendo nuove relazioni tra queste e le loro collezioni, tra le figure professionali e i mondo dei musei” si dice una parte della verità. C’è, nel contempo, il tentativo di far vedere che l’idea storicizzata del museo è una proiezione di una cultura e di un gusto molto recente, con un’operazione che in parte è di reinvenzione e riassetto, di design in senso stretto, che va alla radice del senso della progettazione della relazione tra spazio e oggetti. E la filologia è una parte consistente di quest’intenzione, come se Anderson avesse contribuito con la componente di meraviglia che attraversa tutta la sua opera, e la Malouf ci avesse aggiunto invece un approccio che è sì “non accademico e interdisciplinare”, ma che è fedele alla concezione originaria della “camera d’arte” tanto quanto Tuymans lo è stato, pur in tutti i suoi travisamenti e deragliamenti, rispetto all’idea di “Barocco”.
Ognuno di noi entrando in un museo è naturalmente libero di immaginare la propria wunderkammer, procedendo non attraverso il riconoscimento della storia, del valore, del senso degli oggetti esposti, ma assecondando esclusivamente stupore, curiosità, persino l’impossibilità di comprendere cosa sia un oggetto. E la forma inevitabile di analfabetismo iconologico e iconografico produce continuamente oggi quello che potremmo chiamare l’ “effetto-unicorno”, ossia il tentativo di decodificare con sempre meno strumenti a disposizione del pubblico cosa sia un determinato oggetto, nell’incapacità di riconoscervi il dente di narvalo. È opinione di chi scrive che Wes Anderson abbia in qualche modo voluto alimentare equivoci, travisamenti, ipotesi fantasiose, chiedendo a ciascun spettatore di fare un esercizio d’immaginazione e di meraviglia. Voglio giustificare così la parte meno difendibile dell’allestimento e della fruizione, le guide distribuite ai visitatori per aiutarli nella fruizione, che costringevano nella penombra a seguire una mappa che sembrava un gioco per esperti della “Settimana Enigmistica” e a tentare di leggere il carattere minuto con cui erano numerati e presentati gli oggetti suddivisi nelle diverse teche. Il geniale dilettantismo di Anderson avrebbe qui domandato il supporto di un’intenzione più didascalica, forse non è consonante allo Zeitgeist dei supporter del regista americano, e nemmeno a quello dei frequentatori della Fondazione.