Globalizzazione – A volte basta poco per cambiare il corso inarrestabile della storia. Il coronavirus probabilmente non avrà un impatto enorme sulla storia, ma sicuramente sui nostri giorni sì: perché è chiaro che da quando è esploso il virus, qualcosa è cambiato. Non solo nella percezione della Cina, ma anche nella percezione del mondo globalizzato che, per la prima volta, si scopre debole per un nemico invisibile e potenzialmente letale. E che parte proprio da chi della globalizzazione è il vero motore, forse anche più degli Stati Uniti.
Molti credono che la potenza cinese sia in grado di rinascere subito dopo questo virus. Possibile, anzi, quasi certo. Pechino ha tutte le capacità numeriche, economiche e tecnologiche per rovesciare la crisi scatenata da Covid-19. Il problema è che la Cina vive di ciò che esporta e importa: e il dubbio è che adesso, nell’ex impero celeste, niente sarà più come prima. Soprattutto perché proprio nel momento in cui gli Stati Uniti sembravano aver accettato definitivamente la potenza asiatica quale interlocutore alla pari nella leadership globale, e nel momento in cui il mondo aveva compreso l’ascesa di Pechino quale possibile nuovo protagonista del mondo globalizzato, c’è qualcosa che ha reso improvvisamente tutto più aleatorio e fragile.
La fiducia nella Cina si è abbassata, perché di fronte alle avveniristiche immagini di Shenzen, Shanghai e Pechino si è imposto un muro fatto di tutte le fragilità della Cina profonda. I suoi segreti, rimasti celati per molto tempo, si sono riversati nel mondo e il coronavirus è apparso come quell’apertura del vaso di Pandora che ha portato nel mondo i “fantasmi” del mondo globale.
Ma la guida si è rivelata fragile, tutto insieme. Proprio quando il 5G cinese sembrava in grado di penetrare le infrastrutture europee e mondiali. Proprio quando l’Africa era ormai considerata una sorta di territorio di caccia di Xi Jinping. Proprio quando la Via della Seta terrestre e marittima aveva di fatto modificato (o tentato di modificare) la geografia politica del mondo. E questa fragilità si ripercuote inevitabilmente sull’immagine e sugli interessi mondiali. Aver ceduto lo sviluppo dell’economia alla mondializzazione ha fatto sì che il colpo dato a Wuhan si propagasse a macchia d’olio come il virus stesso. I confini iniziano chiudersi, gli aerei non decollano, le merci restano ferme nei container della navi cargo che dovevano partire o arrivare nei porti cinesi del Pacifico.
È bastato davvero un pipistrello per colpire la globalizzazione? Difficile dirlo con certezza. Ma quello che è certo è che un virus ha saputo ferire l’immagine della Cina leader del mondo globale. Un’immagine che per molti ha gli effetti di quello che fu il disastro di Chernobil per l’Unione sovietica. Impossibile dire se questo colpo sarà definitivo: le armi cinesi sono troppe per pensare che Pechino rinunci solo per questo al suo ruolo nel mondo. Ma è chiaro che qualcosa sta cambiando ed è già cambiato.
L’immagine di arretratezza di alcune componenti essenziali del gigante asiatico si sono unite alle paure ataviche dell’uomo che, mai come questa volta, si sente insicuro di ciò che succedere e arriva dall’altra parte del mondo. L’idea che tutto potesse procedere ininterrottamente come un flusso inarrestabile si è rivelata fallace, se non del tutto utopistica. Basta poco, davvero poco, per fermare i sogni di gloria di una potenza o per far ricredere il mondo sulla globalizzazione. Il coronavirus ha mostrato tutte le nostre debolezza: ma anche e soprattutto della mondializzazione.