I negazionisti del 7 ottobre: sdoganata l’ultima frontiera dell’antisemitismo
Il 7 ottobre 2023 rappresenta ormai una data che entrerà nella Storia. È stato il giorno in cui, dopo quasi ottant’anni, abbiamo capito come il nazismo, foriero del più tremendo odio antiebraico, continui a essere in agguato nella nostra società.
Quello cui abbiamo assistito il 7 ottobre non è stato altro che un vero e proprio pogrom, come quelli che funestarono l’Europa orientale e la Russia nei secoli scorsi, come quello scatenato a Tomsk il 20 ottobre del 1905.
Provate a leggerne la cronaca e le analogie con quanto successo in Israele vi lasceranno sgomenti. Ammesso che la coscienza ve lo permetta. Perché dico così? Perché oggi stiamo assistendo al dilagare di una tendenza inquietante, che spinge molte persone a negare quanto accaduto il 7 ottobre, oppure a ridimensionarlo, affermando che non ci sono prove concrete che tutto ciò sia avvenuto nei termini in cui viene raccontato.
Né più né meno di quanto accadde all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, quando furono liberati i campi di concentramento e di sterminio, quando Primo Levi lasciò Auschwitz.
E proprio all’interno di uno dei suoi resoconti sull’esperienza ad Auschwitz, è possibile imbattersi in un passaggio paradigmatico, del tutto analogo a quanto accade oggi con il massacro del 7 ottobre.
In “La tregua”, Levi ci racconta la sua anabasi, il suo viaggio di ritorno dall’inferno.
Appena sceso sulla banchina del treno a Trzbinia, mentre ancora indossava la sua “divisa” a righe, si raccolse intorno a lui un campanello di curiosi. Con l’aiuto di un polacco che conosceva il tedesco e il francese, Primo cominciò a raccontare la sua esperienza.
Il dolore era immenso, eppure aveva bisogno di mettere il mondo a conoscenza di quanto gli era accaduto, perché tutti apprendessero dell’orrore che si era appena consumato.
Ma dopo un po’ si accorse che il suo interprete non lo definiva un “ebreo Italiano” ma un “prigioniero politico Italiano”. Gli domandò il perché ed egli rispose in maniera evasiva che la guerra non era ancora finita. A quel punto Primo capì come nessuno sarebbero stato disposto ad ascoltarlo. Infatti, ci dice, il campanello di curiosi, che alla fine avevano capito da dove provenisse, cominciò a disperdersi.
E il terrore di non voler essere ascoltato, ci dice, che già dentro ad Auschwitz lo aveva atterrito, alla fine si avverò, devastandolo.
Scrisse infatti: “qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli” (Primo Levi, La Tregua, pp. 110, Ed. Einaudi, Torino 1989).
Quello che si trovò in faccia fu un muro di rifiuto e non un abbraccio di solidarietà. Esattamente quanto sta accadendo oggi nei confronti dei sopravvissuti e delle vittime israeliane del 7 ottobre.
Il New York Times ha da pochi giorni concluso un’inchiesta su quanto avvenuto al Nova Festival, dove centinaia di giovani sono stati trucidati. La testata americana, attraverso una ricostruzione basata su ore di riprese video e sulle dolorose testimonianze dei sopravvissuti, ha restituito un quadro tremendo di quelle ore.
Eppure, come abbiamo detto, da una parte ci sono dei veri e propri negazionisti del 7 ottobre, mentre dall’altra c’è chi ha messo in dubbio l’attendibilità dell’inchiesta, accusando il NYT di essere filoisraeliano e dunque non imparziale.
Anche il Wall Street Journal ha avviato un’inchiesta analoga e siamo in attesa di vedere se quanto affermato dal NYT verrà confermato o smentito.
Ma l’amaro di fondo resta, così come una domanda lecita: come mai tanto scetticismo nei confronti di quanto accaduto? Qual è la ragione vera che spinge centinaia di persone al mondo a cercare in tutti i modi di “sbugiardare” i sopravvissuti? È perché sono israeliani? È perché sono ebrei?
Se tutto ciò non fosse capitato a donne e uomini israeliani ma a bengalesi o australiani, la reazione dell’opinione pubblica sarebbe stata la stessa?
Ai posteri l’ardua sentenza.
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