Come li compatisco, i politologi. Un tempo fiorivano, sui rami dei giornali erano appesi a grappoli, brillavano giulivi nei cieli della politica, per dirla in gergo mentanese. Il politologo era un incrocio tra l’ostetrico, l’esorcista e il veterinario dei politici. Adesso prova a dare del politologo a qualcuno, rischi la querela. I politologi sono animali estinti o quiescenti e i superstiti sono tornati al mestiere d’origine: si fanno chiamare storici, economisti, sociologi, scienziati, perfino giornalisti. S’improvvisano perfino epidemiologi.
A me politologo? Dillo a tua sorella. Perché è scomparsa la materia prima, la politica, o è irriconoscibile alle loro analisi, sono saltati i partiti e i sistemi, i paradigmi e le ideologie. È rimasto un fritto misto ma di cosa non si sa. Ridicoli quei robottini, quei droni che i partiti sparano nei tg per dire la loro filastrocca di buoni propositi. Davanti a questo spettacolino, i politologi, come i venditori di mangiadischi e i distributori di gettoni telefonici, sono fuori mercato.
Da noi la politica è ora una postilla a Draghi, una variante del virus in attesa di vaccino. Sicché il politologo si è atrofizzato, prima gli si sono paralizzati gli arti, destro e sinistro, poi dopo le convulsioni antipolitiche rientrate nell’ovile, è rimasto stecchito. Non è colpa sua. Anch’io un tempo ero tacciato di essere politologo, poi mi curai, riuscii a smettere. Ora scrivo su tre toni, il comico, per cogliere il lato ridicolo e grottesco della politica e non solo; il nostalgico, per nutrire il sentimento della vita con amore di letteratura e il pensieroso, per cercare il pensiero dopo la fine della filosofia. Il politologo oggi è un monologante. O un politico virtuale o mancato. O peggio, è un guardone che si fa molti film nella testa, smentiti dalla realtà, a volte incline alla coprofilia.
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