Da quando raggiunse il tetto trionfale dei suffragi, il Movimento 5Stelle cominciò a perdere consensi. Li perse subito, nell’esperienza di governo con la Lega, li perse ancora nel passaggio di alleanza col Pd, con cui si odiavano fino al giorno prima. Li perse anche quando la paura della pandemia ha donato popolarità al premier Conte. I grillini perdono voti con chiunque si alleino e perdono voti appena cominciano a governare.
La loro forza era: fate tutti schifo, siete tutti ladri e venduti. La loro ideologia, il loro fondamento fu la Pernacchia. E la pernacchia non può andare al potere, nella migliore delle ipotesi è un moto di liberazione, con breve sollievo al seguito. E uso la metafora della pernacchia per non usare allegorie peggiori, di viscerali flatulenze.
La pernacchia, in certi casi, ci vuole; così come la protesta radicale a volte serve a una società quando deve rigenerarsi; in certe dosi è positivo che ci sia un’opposizione contro tutto e tutti. In un paese come l’Italia, gonfio di politica, una dose di antipolitica in fondo non nuoceva. Ma una dose, non un’overdose. Un movimento così può avere una sua funzione di catarsi e di sfogo popolare ma a una condizione: che non vada mai a governare.
Perché un partito composto di gente senz’arte né parte, non solo non è in grado di affrontare la realtà, guidare un paese, non ha competenza né capacità; ma non ha neanche punti fermi per non sbandare, per non degenerare, per non diventare un consorzio di ambizioni sgangherate di gente che non deve dar conto a niente e a nessuno, senza una storia o un’idea a cui essere fedeli.
Con Grillo l’Italia è stata davvero grottesca: gli ha impedito di fare cabaret in tv, quando attaccava grandi marche e grandi leader, e poi gli ha aperto l’autostrada del potere (al di là del benetton e del maletton). Gli hanno censurato le battute, ma poi lo hanno lasciato diventare l’ayatollah del Paese.
Ora, di fronte al marasma che si apre in casa grillina, alla guerra per bande, come dicono alcuni di loro, non cantate vittoria voialtri. In Italia ci sono agonie che durano più della vita normale. E tra tanti zombie che ci circondano, da Renzi alla Bonino, agli sciami di micropartiti, pensare all’estinzione rapida dei grillini è utopia. Il loro tramonto non tramonterà velocemente.
Il problema vero per loro è come decidere di affrontare la discesa: se in groppa al Pd, o meglio al traino, come zavorra e rimorchio che in cambio di benefits, potere e qualche ministero, all’insegna del “stemo bboni, fatece campà”. E così continuare a esercitare il loro potere tirando il più possibile dappertutto, abbozzando sul Quirinale e sul Campidoglio, nascondendosi dietro l’illusionista Conte, avendo un paio d’anni almeno di sopravvivenza al potere; auto blu, tv a disposizione, lobby gay e vetrine, posti di comando…
E questa è la scelta più comoda per chi è riuscito a imbarcarsi e ne gode i benefici riflessi; scelta non politica e nemmeno antipolitica, ma una specie di “reddito di governanza”, versione ricca del plebeo reddito di cittadinanza. È la linea Giggino Adacampà, alias Di Maio, supportata dal Vate Beppegrillo e da tutti coloro che godono dei benefici del potere. Segna la morte del Movimento ma l’allegra gestione del suo cadavere, il profitto sul funerale.
L’altra scelta è quella rappresentata da Ale Di Battista, l’ineffabile Comandante Dibba: tornare alla purezza delle origini, cioè alla pernacchia a cielo aperto, più una marea di buoni propositi per salvare il mondo, attaccando tutto e tutti. Ora a noi ci potrà pure apparire una scelta puerile, una regressione all’infanzia, ma quello è il dna del movimento, nel nome di quella indeterminata rivoluzione prese voti e raccolse militanti. Deresponsabilizzarsi, lasciare la poltrona e prendere la motocicletta, lasciare la pochette e prendere il megafono.
Se dovessi fare previsioni direi che in entrambi i casi i grillini curvano verso un ruolo di schiacciante minoranza. Sono già caduti da primo a quarto partito, e verranno scavalcati pure da Forza Italia, passeranno quinti. Il problema è decidere come finire, se con tutti i conforti del potere ma senza un briciolo di dignità, come larve al seguito di un leader inesistente, il fratello di Montalbano. Oppure se vivere questa lunga agonia con dignità, con un residuo di ritrovata coerenza.
All’opposizione, fuori dal bipolarismo, fuori dal potere. Se dovessi dire, la posizione di Dibba non è solo tardo-sessantottina, venezuelana, cubana-vietcong, non fa solo il verso al movimentismo di sinistra. Ma ricorda l’alternativa al sistema della destra e non solo radicale, anzi almirantiana. La differenza è che al vecchio Msi chiudevano le porte delle alleanze e Almirante sublimava il ghetto in un castello fiabesco; ma sapeva che l’esistenza della fiamma era legata all’opposizione permanente, all’alternativa al sistema, al sogno e alla testimonianza. Dibba ha nel sangue qualcosa del vecchio Msi ripassato in padella sessantottina. Un mix, una macedonia, ma rappresenta un sentire verace, ha perfino una sua dignità.
Sconfitta per sconfitta, nicchia per nicchia, c’è più onore a restar fedeli a quel vago desiderio di rivolta piuttosto che mettersi la livrea o passare da proprietari a braccianti del loro mezzadro, Conte, che si è nel frattempo fuffato i loro possedimenti e tratta coi vicini di masseria. Questo discorso riguarda naturalmente gente che ha la schiena diritta e i loro elettori; non riguarda, non può riguardare chi si è messo comodo ed è pronto a perdere col partito ma a non perdere di persona. Capiteli, sono navigator nell’arte di barcamenarsi. Password: ma quando ci ricapita…
MV, La Verità
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