C’è un perimetro di territorio fertile, incastonato tra le inospitali montagne della Sierra occidentale del Messico, dove, all’incirca 40 anni fa, ha avuto origine una delle organizzazioni criminali più importanti della storia del narcotraffico: il cartello di Sinaloa. Terra di coltivazioni di marijuana e oppio, il cosiddetto “Triangolo d’oro – compreso tra gli Stati di Sinaloa, Durango e Chihuahua e soprattutto il comune di Badiraguato – ha dato i natali ad alcuni tra i più noti narcos messicani: Pedro Avilés, Miguel Ángel Felix Gallardo “El Jefe de Jefes” (Il capo dei capi), Amado Carrillo Fuentes “El señor de los cielos” (Il signore dei cieli), Rafael Caro Quintero, Ernesto Fonseca “Don Neto”. E, ancora: Juan José Esparragoza Moreno “El Azul” (L’azzurro), Ismael “El Mayo” Zambada, Héctor Luis “El Güero” Palma e Joaquin “El Chapo” Guzman. L’unico tra questi boss a non aver mai messo piede in carcere è “El Mayo” che, come sostengono molti specialisti, e anche gli avvocati del Chapo, sarebbe da sempre ed è tutt’oggi il vero leader del cartello di Sinaloa.
Il megaprocesso a Joaquín Guzmán Loera, che si è chiuso a New York con un verdetto che potrebbe valergli l’ergastolo negli Stati Uniti, ha creato molti dubbi sulla possibile sopravvivenza dell’organizzazione che, secondo l’accusa, El Chapo avrebbe guidato negli ultimi 20 anni. Le testimonianze al processo del fratello e del figlio di Ismael Zambada, entrambi estradati e collaboratori della giustizia americana, sebbene abbiano confermato la versione dell’accusa, hanno permesso di ricostruire la complessità e le attività di un cartello che è presente in 17 Stati del Messico e 50 Paesi, e che in America estende le sue attività dall’Argentina al Canada.
Secondo la ricostruzione fatta in aula da Jesús “El Rey” Zambada – che gestiva gli affari di Ismael nella capitale Città del Messico – dalla sua creazione fino alla fine degli Anni 90, suo fratello, El Chapo ed El Azul sarebbero stati soci e capi del Cartello di Sinaloa, il cui funzionamento sarebbe simile a un’alleanza in cui ogni membro o subalterno controlla attività e zone di competenza, ma giurando fedeltà ai capi massimi e proteggendosi a vicenda, con regole di obbedienza simili alla mafia italiana. La versione più plausibile, infatti, narra che il cartello sarebbe nato con il nome di Federazione, quando, a seguito delle pressioni degli Stati Uniti per l’omicidio dell’agente della Dea Enrique Camarena, perpetrato dai narcos nel 1985, il governo messicano smantellò l’allora Cartello di Guadalajara, guidato da Miguel Ángel Felix Gallardo, “El Jefe de Jefes”, Don Neto e Rafael Caro Quintero.
I diversi capi, tutti originari di Sinaloa, si spartirono le principali zone di influenza e controllo del narcotraffico: i fratelli Arellano Felix si tennero Tijuana, allora il principale passaggio di droga verso gli Stati Uniti; Amado Carrillo, “El Señor de los Cielos”, si aggiudicò Ciudad Juárez; El Chapo ed El Güero Palma stabilirono il loro centro operativo nella natia Sinaloa (quest’ultimo fu arrestato nel 1995 ed estradato). Al Chapo si unirono successivamente “El Mayo” Zambada e Juan José Esparragoza Moreno “El Azul”. Da allora, si sono succedute guerre interne ed esterne: tradimenti, omicidi, vendette, catture di capi, crociate anti-narcos lanciate dai differenti governi, stragi, e lotte per il territorio con altri cartelli, come quello del Golfo, gli Zetas e il Jalisco nuova generazione, che tutt’oggi è probabilmente il principale rivale.
Sinaloa però è sopravvissuto. Anche grazie, si dice, alla personalità e alla mediazione di El Mayo e El Azul, vecchi capi rispettati da tutte le fazioni. Come nel caso della più recente e atroce guerra interna che si è svolta in seguito della terza e sembrerebbe definitiva cattura del Chapo, nel 2016, che fu vinta dai suoi figli, Iván e Alfredo Guzmán, soprannominati “Los Chapitos”, aiutati proprio da Ismael Zambada che così sancì, secondo le autorità, la sua leadership all’interno dell’organizzazione a scapito de “Los Dámasos”, Dámaso López padre, “El Licenciado”, e figlio “El Mini-Lic”. Wuesti ultimi, ex-soci del Chapo, sconfitti e ora detenuti negli Stati Uniti.
El Mayo sembra intoccabile, nonostante la taglia da 5 milioni di dollari che pende sulla sua testa. Sarebbe nascosto in un rifugio nella naturale fortezza delle montagne di Sinaloa e protetto dai suoi fedeli abitanti. Il segreto della sua latitanza sarebbe la discrezione, ma soprattutto la corruzione. Secondo alcune testimonianze emerse durante il processo, per la sua protezione El Mayo da anni paga enormi mazzette a funzionari di spicco della polizia e del governo messicano, compresi sempre secondo le testimonianze gli ultimi tre presidenti della Repubblica. E dal “Triangolo d’oro” muove i fili della più grande organizzazione criminale del mondo, che tutt’altro che morta, è capace di rigenerarsi come un’idra dai molteplici tentacoli.
Una organizzazione criminale, quella del Cartello di Sinaloa, che da sola nello scorso anno ha mietuto piu’ vittime del terrorismo nel mondo intero: 29.000 persone sono morte sotto i colpi dei re dei narcos.