Tanto per cominciare, una domanda: un libro può uccidere? Ebbene, sì: è possibile. Nella Cullman Library dello Smithsonian Institute c’è una rara e pregiata edizione del 1602 di De animalibus insectis del naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi, un libro pionieristico sugli insetti illustrato con xilografie dettagliate. Bello da ammirare, ma guai a sfogliarlo! Questo volume custodisce un segreto mortale. La sua copertina, un collage di pergamena medievale riciclata e pelle di cinghiale, è dipinta di verde. E proprio quella vernice verde è impastata con arsenico, uno dei veleni più potenti e mortali.
VEDO VERDE. Chi pubblicò il libro di Aldrovandi voleva forse commettere segretamente un omicidio? No, certo. Quella è la trama del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco… Come ha spiegato Alexandra K. Newman, tecnico della biblioteca dello Smithsonian: «Più che un tentativo di omicidio bibliografico o un sistema di sicurezza mortale, si tratta di una conseguenza involontaria dello sforzo dell’epoca di conservare il libro meglio possibile».
E non è neppure l’unico caso di libro “al veleno”. La biblioteca della University of Southern Denmark ha recentemente identificato ben tre libri del sedicesimo e diciassettesimo secolo con concentrazioni di arsenico sulle loro copertine. “Una spiegazione plausibile per l’applicazione – forse nel diciannovesimo secolo – del verde di Parigi sui vecchi libri potrebbe essere quella di proteggerli da insetti e parassiti”, scrivono Jakob Povl Holck (ricercatore bibliotecario) e Kaare Lund Rasmussen (professore di fisica) in un articolo su The Conversation.
MODE PERICOLOSE. A far sì che l’arsenico diventasse un elemento essenziale dei libri fu anche un po’ la moda. I verdi a base di arsenico ebbero infatti un’ondata di popolarità nell’età vittoriana. Particolarmente apprezzato era il verde di Scheele, chiamato così dal suo inventore Carl Wilhelm Scheele.
Noto anche come verde smeraldo veniva usato per “verdeggiare” dalla carta da parati ai giocattoli per bambini. Di più: secondo lo storico P. W. J. Bartrip, il verde era il colore dominante del tempo “presente in letteralmente dozzine di beni nell’uso quotidiano”.
Qualsiasi oggetto colorato di verde era probabile che fosse stato tinto con arsenico, e nella metà del diciannovesimo secolo le sfumature di verde erano il massimo della moda, specialmente per l’arredamento di casa e l’abbigliamento femminile. Molto popolare era anche il cosiddetto verde di Parigi, mescolato con arseniato di piombo (un composto di arsenico e piombo) a cui si devono i lussureggianti verdi di alcune tele impressioniste. Tutti colori letali, gradualmente eliminati come pigmenti, verso la metà del XX secolo e da allora in avanti, usati come pesticidi (non senza rischi per i chi lavorava nell’industria).
VERDE PERICOLO. In verità, la pericolosità del verde non era sconosciuta, poiché l’arsenico era stato a lungo utilizzato come veleno. In effetti, su alcuni prodotti, come i libri, veniva utilizzato intenzionalmente al fine di scongiurare l’infestazione. E nel 1873, Scientific American scrisse: “I libri giocattolo con copertine verdi sono sempre da sospettare, e in effetti l’unica cosa assolutamente sicura da fare è evitare del tutto i colori verdi”. Ma come si manifestava l’avvelenamento? “L’avvelenamento arsenicale cronico è una condizione alla quale la maggior parte degli uomini è esposta; i dolori acuti nell’addome e la nausea e la sete intensa vengono notati per la prima volta”, cita un articolo del 1917 dell’Ufficio di Statistica del lavoro degli Stati Uniti. “Seguono gastrite, enterite, ittero, diarrea e infine stitichezza. Le unghie si staccano, si sviluppano grandi ulcere e la pelle appare in qualche modo mummificata. Nei casi più gravi, a volte sopraggiunge la morte”.
Tra le vittime più celebri, ci fu l’ambasciatrice americana a Roma nel dopoguerra, Claire Booth Luce, a cui fu riscontrata un’intossicazione da arsenico. All’inizio il clima da guerra fredda suggerì che si trattasse dell’attentato di uno 007 sovietico, poi la verità venne a galla: l’arsenico era presente nella vecchia pittura dei dipinti sul soffitto di Villa Taverna, che in minuscole particelle cadeva anche nel caffè dell’ambasciatrice. Una subdola forma di auto-avvelenamento, insomma.