IL DILEMMA DEL FINE VITA ASSISTITO TRA RAGIONE, FEDE E COMPASSIONE
Il tema del fine vita assistito costituisce una delle questioni etiche e morali più intricate della nostra epoca.
Da un lato, la crescente enfasi sull’autodeterminazione spinge la società contemporanea a riconoscere il diritto dell’individuo di disporre della propria esistenza; dall’altro, la tradizione religiosa
e i principi etici universalisti pongono un freno a questa libertà, ribadendo l’inviolabilità della vita
Il nodo del dibattito, dunque, potrebbe risiedere nella relazione tra razionalità e sentimento, tra norme trascendenti e principi umani, tra compassione e responsabilità morale.
David Hume affermava che “la ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni”, suggerendo che le nostre decisioni, anche quelle morali, scaturiscono più dai sentimenti che dalla logica pura.
Se così fosse, la richiesta di eutanasia o suicidio assistito potrebbe essere interpretata come un atto emotivo
dettato dalla disperazione o dal dolore insostenibile piuttosto che una scelta razionale
Ma è.sufficiente questa prospettiva a giustificare il fine vita assistito? O la ragione, in quanto facoltà superiore dell’essere umano, dovrebbe guidare tali decisioni sulla base di principi universali?
In contrasto con Hume, la dottrina cattolica assegna alla ragione umana un ruolo complementare alla fede. Giovanni Paolo II, nella Evangelium Vitae, sottolinea l’inviolabilità della vita umana,
affermando che la sofferenza non può essere un criterio sufficiente per determinare il valore dell’esistenza
La sofferenza, in questa visione, assume un significato redentivo, che trascende la
singola esperienza individuale.
Charles Taylor evidenzia come la modernità abbia portato a una crisi di significato, frammentando le tradizionali concezioni etiche. In questo scenario, il fine vita assistito si inserisce come espressione di un individualismo crescente, che enfatizza la libertà personale ma rischia di perdere di vista il
valore della comunità e delle relazioni intersoggettive.
Taylor suggerisce che la vera
autodeterminazione non è un atto isolato, ma un percorso che si sviluppa all’interno di un tessuto sociale e morale condiviso.
Se la morale non fosse solo un prodotto della ragione ma anche un’espressione dei sentimenti, come sostenevano Hume e Adam Smith, allora la compassione potrebbe legittimare la scelta di porre fine alla propria vita.
Questo punto di vista trova una sua declinazione nella filosofia di Martha Nussbaum, che con il suo “approccio delle capacità” sostiene che la dignità umana risiede nella possibilità di
esercitare pienamente la propria autonomia
Negare il diritto al fine vita assistito significherebbe, secondo questa prospettiva, negare un aspetto fondamentale della dignità umana.
Tuttavia, il rischio di una deriva utilitaristica è reale: se il criterio per valutare la legittimità di una
scelta morale fosse il sollievo dalla sofferenza, si potrebbe aprire la strada a interpretazioni che minano la sacralità della vita.
La visione cattolica insiste su questo punto: il dolore e la sofferenza non possono essere criteri esclusivi per decidere sulla vita e sulla morte, poiché il valore dell’esistenza umana non si esaurisce nella sua qualità percepita
L’apparente contrapposizione tra ragione e fede, però, potrebbe non essere così netta come sembra.
Tommaso d’Aquino sosteneva che “la grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona”, suggerendo che la fede non deve annullare la razionalità, ma illuminarla; e Sant’Agostino, a sua volta, affermava: “Credi per comprendere, comprendi per credere”, evidenziando come la fede e la ragione possano
essere due percorsi convergenti nella ricerca della verità.
Nel dibattito sul fine vita assistito, allora, questa interazione tra fede e ragione assume un ruolo cruciale
Da una parte, la ragione analizza il problema dal punto di vista dell’autonomia individuale e della dignità, come proposto da Kant nella sua concezione dell’essere umano come fine in sé.
Dall’altra, la fede propone un orizzonte che trascende la sofferenza immediata e invita a considerare la vita nella sua interezza spirituale e relazionale
Alla luce di quanto sin qui detto, è evidente che il dilemma del fine vita assistito non trova una soluzione semplice, poiché si muove tra esigenze opposte: la tutela della dignità individuale e la salvaguardia di un principio assoluto sulla vita. Se la ragione e la fede non sono necessariamente in conflitto, forse la risposta non risiede in una contrapposizione netta, ma in un equilibrio tra queste due dimensioni.
John Henry Newman, un teologo e pensatore inglese, riflettendo sulla fede e la ragione, per sottolineare una distinzione fondamentale tra difficoltà e veri dubbi affermava che “diecimila
difficoltà non fanno un solo dubbio”: affermazione con quale intendeva dire che, anche se ci sono molte difficoltà nell’affrontare un’idea o una fede, queste non sono sufficienti a mettere in discussione.la verità profonda di tale convinzione.
Le difficoltà possono essere superate con l’impegno intellettuale e spirituale, ma un dubbio vero e proprio nasce da un’inquietudine profonda che mina la certezza fondamentale
Per cui, tra le tante difficoltà di carattere etico e religioso che il tema del fine vita assistito pone alle coscienze, forse il vero nodo della questione non è scegliere tra autodeterminazione e sacralità della
vita, tra ragione e fede, ma comprendere che il senso dell’esistenza non si esaurisce in una sola prospettiva… e la risposta, più che nella legge, potrebbe essere cercata nel silenzio di una riflessione intima, dove ogni individuo, con onestà e consapevolezza, è chiamato a cercare dentro di sé il senso
più autentico della propria esistenza e della propria libertà.
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