IL JOBS ACT E IL SUO ANNUS HORRIBILIS

IL JOBS ACT E IL SUO ANNUS HORRIBILIS

Il 2024 è a poco più di metà, ma questi primi sette mesi dell’anno stanno mettendo a dura prova il Jobs Act.

La riforma del lavoro varata dal Governo Renzi con il d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, approvato grazie al voto dalla maggioranza che sosteneva l’esecutivo a trazione del PD, in coalizione con NCD, UDC, SC, PSI, DEMOS e CD, è colpita da più fuochi.

Facciamo un passo indietro

La norma è stata fortemente dibattuta, fra gli altri motivi, per essere stata quella che ha definitivamente superato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, dopo il primo passo cruciale compiuto in questo senso dalla Legge Fornero. Per gli assunti dal 7 marzo 2015 da datori di lavoro con massimo 15 dipendenti, accertata l’assenza di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, il giudice non può più disporre la riassunzione del lavoratore entro 3 giorni ma solo un’indennità risarcitoria; per gli assunti da datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento asseritamente inflitto per giusta causa o giustificato motivo, è possibile che il giudice disponga la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro solo qualora vi sia la diretta dimostrazione dell’insussistenza del fatto materiale contestato. In caso contrario, il lavoratore avrà diritto solo a un indennizzo crescente con l’anzianità aziendale.

Dal 2015 ad oggi però molte cose sono cambiate: con la Sentenza n. 194/2018 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il calcolo dell’indennità basato solo sull’anzianità di servizio, richiedendo che i giudici considerino anche altri fattori, per evitare di non tenere conto delle diverse situazioni personali e professionali dei lavoratori.

Con la Sentenza n. 150/2020 la Corte ha ritenuta illegittima la predefinizione dell’indennità per vizi formali

Ma è nel 2021 con la Sentenza n. 59 che è stato colpito un pilastro della riforma renziana con la dichiarazione di irragionevolezza del potere totalmente discrezionale di scelta di reintegra in capo al giudice, laddove questi abbia accertato l’insussistenza manifesta del fatto che lo caratterizzava. Nel 2022, con la Sentenza n. 125, la Corte ritornava sul punto censurando l’aggettivo “manifesta” che precedeva l’espressione “insussistenza del fatto” posta a base del licenziamento per ragioni economiche, produttive e organizzative in quanto foriero di incertezze applicative.

 

Ed eccoci arrivati al 2024: la Sentenza n. 22 del 22 febbraio ha cancellato l’avverbio “espressamente” che limitava la nullità dei licenziamenti, con la conseguente reintegra nel posto di lavoro, ai soli recessi ove il requisito fosse indicato “espressamente” dalla norma; la Sentenza n. 128 dichiarava l’illegittimità costituzionale della norma che non prevedeva che la tutela reintegratoria attenuata si applicasse anche nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora fosse dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale addotto dal datore di lavoro; la Sentenza n. 129 del 16 luglio prevedeva che la sanzione, in caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, qualora i fatti contestati fossero disciplinarmente rilevanti ma punibili con sanzioni conservative secondo il CCNL applicato, dovesse essere quella della reintegrazione nel posto di lavoro.

Forse colpiti dall’incisività della statuizione del Giudice delle Leggi 22 febbraio e ormai scevri da ogni timore reverenziale verso una riforma così discussa, forse per distogliere l’attenzione dai dati tutto sommato positivi sul mondo del lavoro e dagli obiettivi raggiunti dal governo conservatore in carica (e non di certo grazie alla riforma renziana), il principale sindacato italiano, la CGIL, il 25 aprile scorso, ha lanciato quattro referendum sul lavoro per smontare l’impianto fondamentale del Jobs Act che già la Corte Costituzionale ha messo fortemente in discussione.

I quattro quesiti del referendum sono stati lanciati con lo slogan “Per il lavoro stabile, dignitoso, tutelato e sicuro ci metto la firma” e già nel mese di giugno le firme raccolte per ciascuno di essi erano 582.244

La campagna referendaria si basa sull’assunto, certamente corretto, che il lavoro, in quanto diritto costituzionale, deve essere opportunamente garantito. Ma la domanda che sorge spontanea è se il lavoro non meritasse di essere tutelato anche tra il 2014 e il 2024, quando, fatta eccezione per lo sciopero del 12 dicembre 2014, CGIL e UIL non hanno mai combattuto veramente per quella che è sempre stata una delle bandiere del sindacato italiano, e cioè la stabilità del posto di lavoro.

Ora, finalmente, dopo un silenzio di quasi dieci anni, in particolare con il primo dei quesiti referendari sembra tornare sul punto

In tutto questo tempo non si è ritenuto di affrontare il tema centrale dibattuto nella Sentenza n. 183/2022 della Corte Costituzionale, secondo la quale è necessario “che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti”. Come se questo non bastasse, proprio sul primo quesito, incombe la questione di inammissibilità, in quanto le sentenze della Corte Costituzionale n. 128 e 129 hanno nel frattempo cambiato la norma di riferimento di cui si chiede l’abrogazione.

Non serve che ci si dilunghi sulle caratteristiche del mercato del lavoro in Italia per capire che questa tematica, seppur divisiva, meriti di essere ogni giorno dibattuta in sede sindacale, governativa e legislativa, ma forse è servito un governo di destra per ricordarci che ormai quasi dieci anni fa uno di sinistra ha approvato una legge che evidentemente non è adeguata a normare uno degli aspetti più complessi di questo Paese.

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