Tutti gli imputati firmarono le domande di grazia. L’unico riluttante era Galeazzo Ciano. Fu convinto dal Cappellano del carcere Don Chiot il quale lo pregò di non pregiudicare con il suo ostruzionismo la posizione degli altri.
Il maresciallo De Bono era talmente convinto di avere una pena detentiva, da aver già preparato una lettera a Mussolini nella quale chiedeva di poterla scontare agli arresti domiciliari.
Venne immediatamente il problema di cosa fare delle domande di grazia. Sicuramente i fascisti repubblicani volevano mettere al muro i condannati. Ma erano terrorizzati dal fatto di portare, come procedura avrebbe voluto, le suppliche a Mussolini.
Il problema risiedeva sempre nella presenza di Galeazzo Ciano. Respingere la domanda di grazia di suo genero sarebbe stato un dramma per Mussolini. E molti glielo volevano risparmiare. Ma si può ipotizzare anche che taluni temessero che il Duce invece di respingerle decidesse di concederle.
Sarebbe stato un gesto improbabile da parte di Mussolini che sapeva benissimo che sia le SS di guardia al carcere, che i fascisti intransigenti non sarebbero stati disposti a liberarli, ma avrebbero preferito un esecuzione sommaria.
La credibilità di Mussolini
Comunque il rischio era alto. Anche perché questo avrebbe finito di minare la credibilità del capo del fascismo agli occhi dei tedeschi, che era in quel momento l’unica carta che consentiva alla Repubblica Sociale Italiana di preservare un minimo di autonomia rispetto ad un’amministrazione totalmente diretta dagli alleati germanici.
Inizialmente si chiese il parere del ministro della giustizia Pisenti. Disse che a suo avviso le domande andavano portate al Capo dello Stato, e che era disposto a farsene latore.
Pavolini sarebbe stato disposto a spingerle egli stesso in qualità di segretario del partito, ma trovò l’opposizione netta del pubblico accusatore Fortunato e del giudice istruttore Cersosimo. I quali asserirono che ogni parvenza di legalità sarebbe venuta meno. Ovviamente era da escludere la richiesta di un intervento da parte dell’alleato tedesco, perché avrebbe significato palesare la dipendenza diretta e quindi la mancanza di qualsiasi sovranità.
La possibilità delle autorità militari
L’alternativa era rivolgersi alle autorità militari che avrebbero potuto inoltrare le domande a Mussolini oppure respingerle direttamente. Il generale Piatti del Pozzo comandante territoriale del Veneto, supportato da un ufficiali quale consulente giuridico, si rifiutò in quanto l’esercito era ancora in fase di ricostituzione e lui non aveva incarichi che gli dessero una simile autorità.
A quel punto fu il ministro degli Interni Buffarini Guidi a proporre di rivolgersi alla milizia. In specie all’ufficiale più alto in grado che detenesse il presidio militare della città di Verona: Il Console Italo Vianini.
L’esercito era per tanti aspetti votato alla apoliticità, le camicie nere questo problema avrebbero dovuto non sentirlo. Ma a questo punto Il Console Vianini sentì la difficoltà del momento, ed una responsabilità troppo grande per il suo ruolo.
Pretese dunque l’ordine ufficiale del Comandante generale della Guardia Nazionale repubblicana: Renato Ricci.
Nel frattempo la notte scorreva si era arrivati alle prime ore del mattino, era superata l’alba e tutto sembrò far presagire agli imputati che ci fosse un rinvio. Le fucilazioni avvenivano sempre all’alba. Forse c’era davvero una chance di vivere almeno altre ventiquattrore.
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